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FESTIVAL DI CANNES 2012 : TANTI GRANDI NOMI - MA LA CONFERMA PROVIENE DA UN PICCOLO
  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 maggio 2012
 
(2012)

A tre giorni dalla fine non mi farete cadere nella trappola dei pronostici. Troppi i film non ancora proiettati nei quali credere ancora (Croneberg, Loznitza, Nichols, Im Sang soo), troppo rari quelli emersi finora con evidenza tale da garantirmi dalla sfottitura del giorno dopo. Film di evidente alta caratura, come quelli di Audiard e Mungiu (vedi di seguito), opere di straordinaria valenza umana oltre che di sapiente rigore espressivo, come AMORE del sempre grande austriaco Haneke, commoventi riflessioni sulla morte da parte del giovanissimo novantenne Alain Resnais di Vous n'avez encore vu: ma nessuna per la quale un'eventuale svista nell'assegna della Palma ci indurrebbe alla sfida in duello Nanni Moretti e la sua Giuria . Farcito di nomi indiscutibili, di opere anche godibili ma nessuna delle quali prioritaria nelle filmografie dei loro autori (Loach, Kitano, Vinterberg, Hillcoat, Seidl, Hong Sansoo, Garrone), anche di tonfi insopportabili (Carax), di americani non tutti grandi ma in compenso in eccesso, di maestri affermati in standby d'ispirazione, il paradosso di quest'edizione sembra ben riassunto dall'emergenza di una sola splendida conferma: ma la stessa è stata relegata fra i ripieghi del Certain Regard piuttosto che fra i senatori sfiatati della serie A& A perdre la raison del giovane belga Joachim Lafosse (rivelatosi a Venezia e Locarno con i bellissimi Folie privée e Nue proprietè ) sul quale ritorneremo brilla nella programmazione non solo per il rigore che regge uno sguardo d'immediata, straordinaria vibrazione, non solo perché permette ai protagonisti Emilie Dequenne e Niels Arestrup delle rese che sarebbero state da Palma d'interpretazione, ma affronta con ammirevole padronanza le ricadute insospettabili di un tema a prima vista impossibile, quello di una madre che nel 2007 in Belgio uccise i suoi cinque figlioli. * * Melodramma? Come no, con situazioni del genere: Ali, un figlio di 5 anni ma senza soldi, senza casa, senza amici, costretto a frugare nei cestini del treno che lo porta verso il sud per sfamare l'adorabile ragazzino. Troverà un impiego da buttafuori, troverà sopratutto Stéphanie: bella, discretamente agiata, disinvolta, come non può non esserlo una domatrice di orche marine del parco acquatico di Antibes. Ma il mélo non è un'indagine sociale, e le sue regole incombono. Dapprima vigile di sicurezza, quindi pugile clandestino il granitico ragazzone avrà presto da che medicare tante ferite del proprio corpo; in quanto alla solare Stéphanie, sarà proprio una delle sue fide orche a toglierle la gioia di vivere, privandola delle due gambe. Sarà allora perché Jacques Audiard aveva già filmato in Sur mes lèvres (2001) un sorprendente, bellissimo incontro fra una segretaria andicappata dell'udito e un giovane sbalestrato, sarà poiché viene da pensare ad un altro accostamento fra una donna del pugilato e il duro dal cuore tenero, quello famoso di Million Dollar Baby, si fa presto a pensarci . Ma il cinema non è fatto di temi. Come con Eastwood, l'attenzione al dettaglio essenziale, la sensibilità che ne deriva all'interno di uno stile apparentemente classico, la poesia che affiora progressivamente all'interno della storia di Di ruggine e ossa nasce da un'arte, segreta e impalpabile, di una regia magistralmente rivelatrice, anche perché mai ostentata. Dalla qualità di uno sguardo che riesce, con la delicatezza dell'ispirazione, a trascendere la normalità della realtà rappresentata. Ali e Stéphanie si riprenderanno mutualmente dalle loro tremende ferite, in una conquista esistenziale a prima vista impossibile, l'avevamo anche intuito. Ma Audiard riesce a farci vivere questo itinerario senza un'ombra del patetismo, della ridondanza sentimentale, dell'enfasi espressiva, che restano peculiarità, ma per strategie e finalità del tutto diverse, dei capolavori del melodramma, quelli di Sirk o Fassbinder per intenderci. Qui siamo all'opposto: se l'autore di Un prophète riesce a mostrarci in tutta la sua incredibile fisicità, la sua esplicita sensualità l'incontro progressivo fra la bella amputata e la bestia finalmente intenerita è solo grazie alla commozione del tatto espressivo. Nel pudico scrutare il sorriso offuscato che si volge al fiducioso della meravigliosa Marion Cotillard, nella crescita umana del suo rapporto con la cocciuta, ma quanto salutare indifferenza di Matthias Schoenaerts (lanciato alla grande, dopo un altro immusonito, il Tahar Rahim di Un prophète), nell'interesse per la personalità dei personaggi secondari, nell'adeguatezza seducente del commento musicale, nella patina estetica di un respiro che sa essere di un'intimità sconvolgente senza rinunciare per questo al dialogo con ogni spettatore 3, c'è l'ombra avvincente e delicata di uno dei grandi cineasti non solo di Francia. * * Non è che dai tempi di Ceausescu le cose sembrino andare molto meglio in Romania. Dalla cupa repressione del comunismo agonizzante di 4 mesi 3 settimane 2 giorni, gelida, limpidissima requisitoria sull'aborto Palma d'Oro nel 2007, ecco una riflessione altrettanto impegnata sull'ambiguità che pare ancora sussistere fra amore terreno e altro che definiremo speculativo. In Al dilà delle colline Cristian Mungiu affonda una volta ancora la sua lama con la determinazione che gli è tipica, profonda, nel malessere di un paese al quale non basta l'illusione di supermercati e autolavaggi per risollevarsi da una miseria economica e morale. Sulla collina sovrastante, fra corvi e quattro arbusti spelacchiati dal lungo inverno incipiente, si staglia controluce il convento del prete ortodosso, il "papà" da compiacere da parte delle miserelle che si stagliano in nero, mentre si agitano fra la chiesa sconsacrata, il refettorio, le celle. E' in quel microcosmo fatale e ipnotico, in quella dimensione dolciastra appena fuori dal mondo di oscurantismo evangelico che giunge Alina; dalla Germania, dove ormai lavora e per la quale vorrebbe ripartire, ma soltanto assieme alla sua amica dai tempi dell'orfanatrofio, senza la quale non può vivere. Ma Voichita, tanto esile quanto Alina è massiccia, non appartiene ormai più al suo mondo, ma a quello della Fede. La fede del priore e della badessa, quella che muterà presto la convinzione melensa alla violenza di chiodi, martelli e catene. Per esorcizzare il demonio che alberga in chi crede in un amore terreno e, come non bastasse, omosessuale, i tempi degli esorcismi (e i toni dei film) non sono più quelli usati per gli assatanati di Dreyer e Ken Russell: ma Mungiu non si è inventato nulla, se è vero che i fatti sono realmente accaduti nel monastero di Tanacu nel 2005. Peccato che il film duri una mezzora più del dovuto, che la progressione drammatica perda in parte in parte della sua forza coinvolgente per diluirsi in un finale un po' speditivo.

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