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FESTIVAL DI CANNES 2012 , LE PRIME GIORNATE - QUANDO E TUTTA UNA QUESTIONE DI STILE
  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 maggio 2012
 
(2012)

Cannes ricomincia dall'America. Eravamo rimasti, un anno fa, a quella della Palma per il Terrence Malick di The Tree of Life, dopo troppi anni di rapporti scontrosi; la ritroviamo con ben cinque pellicole in competizione (più l'atteso Cosmopolis, di Cronenberg che è canadese). Non solo: con l'onore del film d'apertura, e senza per questo la condizione tradizionale del fuori concorso, cara ad un habitué cauto come Woody Allen. Ora, qualcuno già storce il naso alla situazione: su ventidue in gara, oltre all'invasione yankee dalle credenziali non tutte evidenti, quattro selezioni francesi. Finisce a quel modo piuttosto in ombra l'Est asiatico (la continuità del coreano Im Sang-soo, al contrario d quella del suo omonimo Hong è tutta da dimostrare), poco da Gran Bretagna e Italia, nulla da zone solitamente stimolanti come Spagna o Belgio (Joachim Lafosse declassato al Certain Regard per il suo scomodo A perdre la raison fa molto discutere), e con il sospetto che dall'America Latina di Reygadas e Salles giunga del low food riscaldato. * * * Aria che tira. Subito contraddetta dall'esordio di un Wes Anderson enorme come al solito, ma sorprendente di significativa misura: tanto da far risultare Monrise Kingdom una delle migliori riuscite da sempre del controverso, in quanto geniale quanto spesso scombiccherato autore del memorabile I Tenenbaum. Ma è una vecchia storia, far ridere al cinema, oltre che a eventualmente pensare è infinitamente più difficile che scatenare le lacrime: eppure le commedie, anche le rare di qualità, faticano tradizionalmente ad imporsi alle giurie. Salvo poi rifarsi tardi al botteghino: come meriterebbe questa vicenda, altrettanto svitata ma infinitamente più divertente e assai meno sgangherata di quella del compiaciuto precedente del 2007, Il treno per Darjeeling. Affondiamo, è il caso di dirlo, nei colori di un'estate su un'isola della Nuova-Inghilterra che la pongono agli antipodi di quella dei Polanski e Scorsese di The Ghost Writer e Shutter Island. Nel 1965, con le reliquie oggettistiche care a Andy Warhol e, più curiosamente, le canzoncine di Françoise Hardy: scatolette di carne per gatti e giradischi a 45 giri, nel kit di sopravvivenza per giovani marmotte di due innamorati veramente in erba. Nella natura fiabesca, in fuga sfrenata dal micidiale campo scout c'è lo scontroso orfano dodicenne dal balordo berretto alla Crockett; e la lolita con le lentiggini, poeticamente depressa (bella rivelazione, Kara Hayward), che tenta di evadere dal perturbato perbenismo borghese della rossa casetta dove ci si aliena all'eco di Benjamin Britten. Non che gli inseguitori siano meno squinternati: dall'orda di boy-scout armati di mazze chiodate che sfuggono al tenero caposquadra (Edward Norton) al gentile poliziotto innamorato ((Bruce Willis&) della mamma della bimbo che impera in famiglia a colpi di megafono ( Frances McDormand), al padre lunare dal buonimso velleitario (Bill Murray), fino alla perfida assistente sociale (Tilda Swinton), ansiosa di spedire in riformatorio quelle minacce all'ordine pubblico Un happening di surreale comicità: con il fascino che nasce dalla qualità di una visione, uno sguardo sempre sul filo del clamoroso virtuosismo manierato, ma questa volta capace d'inserirsi in una riflessione compiuta sul significato della normalità. Una progressione temporale anche commossa alla ricerca dei paradisi di un'innocenza perduta, perfettamente vissuta nel nonsenso dalla solita, straordinaria banda d'attori. E' la forza di uno stile immediatamente riconoscibile: che, contrariamente a quanto avveniva con il Wes Anderson del passato, non arrischia una volta tanto il compiacimento sopra le righe. Ma si esprime, come nella formidabile messa in situazione iniziale, in una perfetta sintesi espressiva, una micro-organizzazione affascinante di quadretti esistenziali, tagliati con la precisione di un bisturi affilato. La casa delle bambole alla quale da bambini toglievamo il tetto per osservarne la miniaturizzazione interna: solo che questi suoi abitanti sono terribilmente attuali. * * * Torneremo sul film memorabile di questi primi giorni, De rouille et d'os che non solo conferma, dopo Un profeta ma non solo, quanto importante sia Jacques Audiard per il cinema contemporaneo, e offre a una meravigliosa Marion Cotillard il miraggio di una Palma d'Oro. Ma le attese erano anche per uno dei rari film politici di quest'anno, quello tipico dal quale i fedelissimi escono qualificandolo d'interessante. Rendendo complicato dissentirne: Dopo la battaglia ha tutta la simpatia che merita questo primo film (più di fiction che documentario) che illustri i moti della Primavera Araba. Quelli egiziani in questo caso, con l'encomiabile buona volontà di scavarne le effettive motivazioni, le ancestrali manipolazioni; e le antiche maledizioni che gravano i Cavalieri delle piramidi. Quelli che inforcarono cavalli e cammelli per disperdere ferocemente i dimostranti di PiazzaTahrir, in ambigua combutta con il vacillante potere. Ma anche il film "interessante" arrischia di spuntare la sua arma più efficace, la credibilità, quando non è sorretto dall'arte dello stile nella scrittura. Forse nell'urgenza di rispondere ai tempi dell'attualità politica, il film dell'onesto Yousry Nasrallah è scritto con un'approssimazione sconsolante, nel rigore della regia, il flusso prevedibile delle situazioni, la scelta e la resa degli attori. E' troppo, anche per l'ormai storica Piazza Tahrir.

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