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FESTIVAL DI CANNES 2012 - UNA PALMA DORO INEVITABILE A HANEKE
  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 giugno 2012
 
(2012)

Non se ne può più, ad ogni fine festival, di litigare sui premi e dissertare sugli intrallazzi delle giurie. Ma come fare altrimenti, quando spesso quelle decisioni non sono altro che lo specchio, curiosamente conforme, della manifestazione stessa? Una volta ancora, come da copione, Nanni Moretti e compagni non hanno fatto altro che adattarsi a quanto Cannes 2012 ha servito loro sul piatto: con qualche pasticciata più testarda delle altre (non una sola decisione, guarda caso è stata presa all'unanimità) ma un approccio identico a quello dei selezionatori, alquanto pigro, piuttosto sorprendente se consideriamo la reputazione di agitatore cinefilo di cui gode il suo presidente. Cosi, una volta premiato l'imprescindibile Amour di Haneke, e dopo avere clamorosamente inciampato nel film considerato da tutti il più squinternato della competizione (Post Tenebras Lux del messicano Reygadas), si sono presto adeguati al minimo sforzo. Come? Attribuendo, ad esempio, la totalità delle loro patacche a cineasti che erano già stati ricompensati a Cannes in passato: oltre a Haneke e Reygadas, Loach, Vinterberg, Garrone e Mungiu! Il fallait le faire, come dicono da quelle parti: già, ma non è che cosi facendo si siano semplicemente adeguati all'umore di chi aveva composto il programma?. Intendiamoci, ogni annata dà il vino che si ritrova: e non si poteva pretendere di ripetere una stagione cinematograficamente forse irripetibile come è stata quella 2011, che solo a Cannes aveva visto sfilare i Dardenne, Bilge Ceylan, Kaurismaki, Moretti, Malick, Allen, Maiwenn, Hazanavicius, Cavalier, von Trier, Almodovar, Sorrentino, Refn, Van Sant, Kawase (seguiti, a Venezia, da Cronenberg, Ferrara, Clooney, Arnold, Polanski, Solondz, Sokurov, McQueen, Soderbergh, Olmi, Pacino, Haynes) & E non è che quest'anno mancassero alcune opere di valore, ci mancherebbe in un festival dai poteri illimitati, 20 milioni di budget, 2600 giornalisti, tanto per dirne una. E anche se sono stati rari i capolavori (vedi la tabella accanto con le stellette della critica internazionale), di quelli da strapparsi i capelli se ignorati, ciò è anche dovuto al caso, alle scadenze dei lunghi processi di produzione delle pellicole: al fatto che Wong Kar Wai, Tarantino, Herzog, Farhadi per non parlare del solito Malick hanno avuto magari avuto un improvviso ripensamento nella fase finale della post-produzione& Cerchiamo però di non ricadere nel tranello dei grandi nomi, dal quale anche sua maestà Cannes sembra essere sempre più tentata. Sempre più soldi, sempre più affari sulla Croisette (considerati gli incerti della finanza nella crisi attuale, pare che molti operatori stiano ritornando ad investire in un campo pur notoriamente azzardato come quello del cinema): di conseguenza, perché arrischiare azioni di disturbo in un clima cosi propizio con una programmazione più coraggiosa per non dire provocatoria? Saranno maldicenze: ma certi controsensi, le sorprese con il contagocce, l'assenza di facce nuove, nemmeno un'opera prima in competizione, cinque americani in gara (e nessuno ricompensato&) e cosi tanta Europa. Sospetti alimentati, quando si relega nella sezione delle seconde scelte (il Certain Regard) opere di straordinario vigore, rivelazioni eccitanti. La conferma che il belga Joachim Lafosse appartiene ormai al giro dei cineasti non solo sensibili, ma perfettamente maturi, con il suo A perdre la raison: la sua straordinaria protagonista, Emilie Dequenne, avrebbe avuto più di una chance nel Concorso, e cosi tutto il film. Stessa sorte per l'osannato (vedi tabella) Beasts of the Southern Wild dell'americano Ben Zeitlin, splendida sorpresa a cavallo fra realtà e onirismo. E, ancora, l'esilarante (ma anche indagatore) Le grand soir, della coppia francese Delépine & Kervern: avrebbe scompigliato con l'anarchia del suo scatenato surrealismo una programmazione consensuale. Sono scelte determinate dalla volontà dei programmatori, e un poco fanno pensare. E' stilisticamente che troppi film di nomi anche altisonanti si sono rivelati dignitosi ma sottotono: Kiarostami, Cronenberg, Garrone, gli asiatici, il Maghreb, gli americani, Walter Salles che adatta un mito della controcultura come On the Road di Kerouac come fosse una partouze alla Strauss  Kahn. Mentre è nella scelta dei temi che gli autori sembrano essersi armati di maggior coraggio: l'amore, l'approccio alla morte, gli affanni del capitalismo, la reazione alla mortificazione del corpo, la condizione femminile, la dignità umana nella guerra (nell'interessante russo In the fog, di Loznitsa), la pedofilia, l'infanticidio. Poi, come sappiamo, non è tanto con i temi che si fanno i grandi film; ma è un altro discorso. Ritorneremo nelle prossimo settimane su parte dei titoli, che immancabilmente, malgrado le riserve, finiranno per affermarsi fra il meglio del cartellone autunnale. Certo, è finita che le dimenticanze hanno irritato più dell'adesione alle scelte: difficile accettare l'assenza dalle segnalazioni di De rouille et d'os di Jacques Audiard, di Moonrise Kingdom di Wes Anderson, di Vous n'avez encore rien vu, del giovanissimo novantenne Alain Resnais. A favore di film premiati inutilmente due volte, come per Aldilà delle colline. Designato per la sua sceneggiatura, che costituisce la parte più debole del film, e non per la potente impressione della sua regia; regalata,allo strampalato Reygadas. Dimenticanza assoluta dell'unico grande film della strabordante presenza americana: il sensibilissimo Mud di Jeff Nichols. Se esistono due film che v'incoraggio ad andare a vedere, certo che non sarete delusi, sono proprio quest'immersione alla Mark Twain di un cineasta alla Malik che racconta gli incerti dell'amore di un adolescente per un'età adulta tutta carica di ambiguità; dopo di che potrete godervi il precedente del giovane regista, quel Take Shelter che un anno fa incantò Cannes. E che nessuna sala si è sognata finora di programmare.

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