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VENTO DELL'URUGUAY Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 marzo 1989
 
di Bruno Soldini, con Rodolfo da Costa, Till Silva, Alejandro Buesch (Svizzera, 1989)

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Il cinema svizzero s'espatria. E così quello ticinese: dopo Villi Hermann con il recente BANKOMATT, ecco che Bruno Soldini non si limita a cercare soldi e collaboratori con le coproduzioni estere. Ma addirittura parte a girare in Sudamerica, sulle tracce di un racconto di Juan José Morosoli, I MURATORI DI LOS TAPES, che la TSI produce (e presenta la settimana prossima sui suoi schermi, preceduto da un documentario sulla vita dello scrittore ). Come per quello nazionale, per l'ancora più ristretto panorama ticinese si arrischia di togliere dal cassetto gli argomenti d'uso: perdita dell'identità, banalizzazione, mancanza d'ispirazione. Clamorosamente a torto, a giudicare dalle immagini di questo VENTO DELL'URUGUAY.

Allontanandosi dagli esigui confini nostrani (e rivitalizzando certi umori, grazie all'impiego di attori sanguigni di quelle latitudini) il cinema di Soldini non perde di certo l'incanto che la cornice nostrana assicurava al suo primo STORIE DI CONFINE. Il suo film - ed è qualcosa che immediatamente lo solleva da terra - non è il compitino sul tema: emigrazione e nostalgia, pampas e valle Maggia, chili e castagne. Ma la constatazione di una condizione eterna; la svolta di una situazione che da contingente si fa universale. I protagonisti di VENTO DELL'URUGUAY, siano poi il giovane ticinese o i suoi due compagni gauchos non è che se la passini bene nella miseria della prateria uruguagia, dove sono stati assoldati per costruire le mura di un cimitero. Non è che non abbiano voglia di andarsene: ma sanno che altrove, a Montevideo come a casa propria, la situazione non muterebbe granché.

Nella prima parte del film, Soldini esprime con un'incisività ammirevole questa idea: è un regista, Soldini, che non ha paura dei silenzi. Di girare attorno ad un primo piano, immobile e silenzioso, del proprio protagonista: per tutto il tempo che occorre. Quello necessario a scavarne una solitudine; che da sua, nel vento incessante della pianura, diventa nostra. È un autore, egualmente, che sa esprimere la materia, la fisicità della fatica: quella che si scontra con un suolo duro ed ingrato, una terra rossa sotto le zolle ingiallite, che stenta ad aprirsi anche ai colpi del piccone. Prima di cedere a certi risvolti discutibili della sceneggiatura (nella seconda parte, quando i destini dei personaggi si compiono con una certa approssimazione psicologica) il racconto scandisce con ammirevole concisione quella specie di destino immutabile: le frasi - le sequenze - sono secche, incisive, sfrondate da superflue spiegazioni espressive. Nulla è lasciato all'annotazione folcloristica, alla facile decorazione d'ambiente (e ciò vale anche per gli altri elementi del film, dalla fotografia di Paltenghi e di Brunner, ai costumi di Jimmy Ortelli o al montaggio di de Ritis): ma iscritto con determinazione in quelli che vogliono essere i significati del racconto.

Un viaggio, questo di Bruno Soldini lontano da casa che, come quello del suo protagonista, sembra aprirgli nuove certezze. Nuove energie, piuttosto che nuove illusioni. Un viaggio la cui riuscita non si può che augurare a molto del cinema di casa nostra.

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   Swiss cinema is going abroad. And so is Ticino's: after Villi Hermann's recent BANKOMATT, Bruno Soldini is not just looking for money and collaborators with foreign co-productions. He is even going to film in South America, in the footsteps of a story by Juan José Morosoli, I MURATORI DI LOS TAPES, which TSI is producing (and presenting next week on its screens, preceded by a documentary on the writer's life). As in the case of the national scene, the even more restricted Ticino panorama ventures to take the usual arguments out of the drawer: loss of identity, trivialisation, lack of inspiration. Quite wrongly, judging by the images of this VENTO DELL'URUGUAY.

By moving away from the meagre confines of Italy (and revitalising certain moods, thanks to the use of sanguine actors from those latitudes) Soldini's cinema certainly does not lose the charm that the local setting ensured in his first STORIE DI CONFINE. His film - and this is something that immediately lifts him off the ground - is not a little essay on the theme of emigration and nostalgia, pampas and Valle Maggia, chillies and chestnuts. But it is the realisation of an eternal condition; the turning point of a situation that goes from contingent to universal. The protagonists of VENTO DELL'URUGUAY, be they the young man from Ticino or his two gauchos companions, do not fare well in the misery of the Uruguayan prairie, where they have been hired to build the walls of a cemetery. It's not that they don't want to leave: but they know that elsewhere, in Montevideo as well as at home, the situation wouldn't change much.

In the first part of the film, Soldini expresses this idea with admirable incisiveness: Soldini is a director who is not afraid of silences. He is a director, Soldini, who is not afraid of silences, of circling around a still, silent close-up of his protagonist for as long as it takes. The time it takes to dig out his solitude, which in the incessant wind of the plain becomes ours. He is also an author who knows how to express the material, the physicality of fatigue: that which clashes with a hard and ungrateful soil, a red earth under the yellowing clods, which finds it hard to open up even to the blows of the pickaxe. Before giving in to certain questionable aspects of the screenplay (in the second part, when the destinies of the characters are fulfilled with a certain psychological approximation), the story beats out that sort of immutable destiny with admirable conciseness: the sentences - the sequences - are dry, incisive, free of superfluous expressive explanations. Nothing is left to folkloric annotation, to facile ambient decoration (and this also applies to the other elements of the film, from Paltenghi and Brunner's photography to Jimmy Ortelli's costumes or de Ritis's editing): but inscribed with determination in what are intended to be the meanings of the story.

Bruno Soldini's journey away from home, like that of his protagonist, seems to open up new certainties. New energies, rather than new illusions. A journey whose success we can only wish to much of our cinema.

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