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LO SGUARDO D'ULISSE
(TO VLEMMA TOU ODYSSEA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 maggio 1995
 
di Theo Angelopoulos, con Harvey Keitel, Maia Morgenstern, Erland Josephson (Grecia, 1995)
 
Harvey Keitel, in un'immagine recente

Alla ricerca dello sguardo perduto. Così potrebbero intitolarsi le tre ore di proiezione, che riassumono due anni di peregrinazioni nei Balcani di Theo Angelopoulos. Infatti, lo sguardo perduto rincorso dal protagonista (Harvey Keitel, un po' spaesato da uno stile al quale non è abituato; ma che trasmette al film, riportandolo con i piedi per terra, un certo qual pragmatismo all'americana) non è altro che quello originale, portatore di una purezza ormai perduta, fissato su un pezzetto di pellicola. Scomparsa da tempo, magari mai esistita, girata all'alba del cinema dai fratelli Maniakis, pionieri del cinema balcanico. Per rintracciarla, Keitel-Ulisse intraprende un viaggio che è evidentemente un'odissea contemporanea: dalla Grecia all'Albania, attraverso la Macedonia verso Sofia e Bucarest, poi a Costanza sul Danubio, infine a Belgrado, per terminare dove era d'obbligo terminare, nell'inferno di Sarajevo.

Anche se ha girato in ambienti naturali, nella neve sporca, il fango, il freddo ed i pericoli di quelle contrade attraversate da ogni sorta d'inverno, da frontiere incerte e profili uniformi, era impensabile che Angelopoulos facesse del suo itinerario un documentario: ed infatti LO SGUARDO D'ULISSE si carica progressivamente dei toni mitici di un viaggio iniziatico, alla ricerca di un'identità e, più ancora, di una ragione d'essere e di sopravvivere. Quella del protagonista che è un cineasta originario della Grecia; ma pure quella di ogni europeo, che da questi luoghi drammaticamente attuali è costantemente proiettato a ritroso nel tempo, ed obbligato ad un doloroso esame di coscienza.

Sono metafore, allegorie delle quali Angelopoulos è maestro. Una folla silenziosa, armata di sole fiaccole, che protesta nella città greca di Florina dal quale s'inizia il viaggio; l'incontro con tre donne, tutte interpretate dall'attrice rumena Maia Morgenstein, che il protagonista non riuscirà mai ad amare; i festeggiamenti in seno alla sua famiglia, dove lo vediamo ritornato ragazzino in un'atmosfera dal sapore bergmaniano, mentre sullo sfondo di un medesimo ambiente osserviamo succedersi personaggi che riassumono la storia dell'Est nel dopoguerra. E ancora, nella sequenza più grandiosa, una chiatta sul Danubio che trasporta un'immensa statua di Lenin. E sulla riva una folla di contadini che assiste al passaggio facendosi il segno della croce: non è molto chiaro se in segno d'omaggio, oppure di sollievo... Infine Sarajevo, avvolta nella nebbia che permette agli abitanti di uscire dagli scantinati vanificando finalmente l'infamia dei cecchini, l'incontro con Erland Josephson (che ha ereditato il ruolo di Gian Maria Volonté, deceduto durante le riprese), curatore di una cineteca ormai ridotta al lume di candela, l'interrogativo angoscioso di Keitel ai passanti ("Is this Sarajevo? Is this Sarajevo?...") a concludere l'ennesimo viaggio di Angelopoulos.

Un viaggio che potremo anche discutere per la sua gestazione espressiva: ma che, imperiosamente, entra a far parte del patrimonio ineluttabile di ogni europeo costretto a riguardarsi il cammino percorso in questo secolo.


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