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Chi poteva, nel 1994 a Venezia, assegnare il Leone d'Argento per l'Interpretazione a Vanessa Redgrave (dimenticando magari un mostruoso Tim Roth) che con quel primo film stava esordendo uno dei cineasti più grandi dell'era post scorsesiana? E ancora: come dimenticare come gli inizi di LITTLE ODESSA suggerivano quelli di un thriller, poi progressivamente mascherato? In effetti, un regolamento di conti fra padre e figlio...
Trent'anni dopo, grazie a questo ARMAGEDDON - IL TEMPO DELL'APOCALISSE, molte cose si chiariscono. Il primo film di James Gray era certamente un noir:su un'anima altrettanto nera, all'interno di una famiglia di immigrati russi nel Queens di New York. Con quel figliol prodigo che ritornava a casa per espletare in incognito le proprie funzioni di killer glaciale. Incursione metafisica, negli anfratti più oscuri di un gruppo che il cineasta continuerà a sondare in seguito.
Grazie al taglio impeccabile di quelle atmosfere da tragedia classica, al profumo di disincanto yiddish, alla precoce maestria visionaria nella direzione degli attori, i temi e le opere del regista risalteranno allora con la splendida, perversa affilatura di un diamante. Ecco presentarsi l'ambiguità dei rapporti con il padre e la madre, la fragilità nell'amicizia, l'ineluttabilità del tradimento, la fatalità dei sentimenti.
Semplice a classico come mai nel riesumare questi sentimenti fino all'evidenza autobiografica, ARMAGEDDON racconta, quasi accoratamente, tutto ciò che ha importato nella visione di James Gray. Ricorda due adolescenti (ma uno è bianco, l'altro nero...) che perdono la loro innocenza. Con uno sguardo lucido e commosso, sensibile e melanconico che finisce per coinvolgere tutto un universo, già in quegli Anni 80 insidiato dal razzismo e l'antisemitismo.
Ecco allora che James Gray, come lo Steven Spielberg del suo ultimo film, favoloso nell'intimità e snobbato dal grande pubblico THE FABELMANS, non solo ritornano alla propria formazione, all'intimità del nucleo familiare. Ma troncano, non appena raggiunti i primi passi incontro alla maturità, il pudore della loro rievocazione. Complici qui il raro equilibrio della sceneggiatura, il fulgore nella semioscurità del ricordo della fotografia di Darius Khondji.
Al cineasta americano dal modernismo più limpido era già riuscita una eclatante e allora sorprendente rottura di tono da parte di un gigante dell'azione. In TWO LOVERS nel 2008, aveva voltato le spalle a ogni violenza esplicita e spettacolare. Sangue, mafie, scambi di armi da fuoco avevano lasciate il posto a problematiche tutte rivolte all'interno dei personaggi, Non più truci malefatte, straordinariamente condotte; ma una resa dei conti tutta rivolta nei confronti dell’intimità dei protagonisti. Eccolo allora quel nonno, così meravigliosamente interpretato nei sotto toni da Anthony Hopkins, nel quale la svolta capricciosa delle ingiustizie vissute dal giovane nipote (un aderentissimo Michael Banks Repeta) troveranno sfogo nella delicatezza autorevole di una progressiva, toccante lezione di vita.
* Vogliate p.f. cliccare su www.filmselezione.ch per la lettura completa della raccolta di critiche cinematografiche FILMSELEZIONE di Fabio Fumagalli
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Who could, in 1994 in Venice, award the Silver Lion for Performance to Vanessa Redgrave (perhaps forgetting a monstrous Tim Roth) who, with that first film, was making her debut as one of the greatest filmmakers of the post-Scorsese era? And again: how can we forget how the beginnings of LITTLE ODESSA suggested those of a thriller, then progressively disguised? Indeed, a settling of scores between father and son....
Thirty years later, thanks to this ARMAGEDDON - THE TIME OF APOCALYSIS, many things become clearer. James Gray's first film was certainly a noir: about an equally black soul, within a family of Russian immigrants in Queens, New York. With that prodigal son returning home to carry out his duties as a glacial killer incognito. A metaphysical incursion into the darkest recesses of a group that the filmmaker will continue to probe later.
Thanks to the impeccable cut of those classical tragedy atmospheres, the scent of Yiddish disenchantment, the precocious visionary mastery in the direction of the actors, the director's themes and works will then stand out with the splendid, perverse sharpening of a diamond. Here we see the ambiguity of relationships with father and mother, the fragility of friendship, the inevitability of betrayal, the fatality of feelings.
As classic as ever in exhuming these feelings to the point of autobiographical evidence, ARMAGEDDON recounts, almost heartfelt, everything that mattered in James Gray's vision. It recalls two teenagers (but one is white, the other black...) losing their innocence. With a lucid and moved, sensitive and melancholic gaze that ends up involving a whole universe, already in those 1980s undermined by racism and anti-Semitism.
And so it is that James Gray, like the Steven Spielberg of his last film, fabulous in its intimacy and snubbed by the general public THE FABELMANS, not only returns to his own formation, to the intimacy of the family nucleus. But they sever, as soon as they take their first steps towards maturity, the modesty of their reminiscence. Accomplices here are the rare balance of the screenplay, the radiance in the semi-darkness of memory of Darius Khondji's photography.
The American filmmaker with the most limpid modernism had already managed a striking and then surprising break in tone by an action giant. In TWO LOVERS in 2008, he had turned his back on all explicit and spectacular violence. Bloodshed, mafias, exchanges of firearms had given way to issues all turned inward on the characters. No more grisly misdeeds, extraordinarily conducted; but a showdown all about the intimacy of the protagonists. Here, then, is that grandfather, so marvellously played in the undertones by Anthony Hopkins, in which the capricious turn of injustice experienced by the young nephew (a very tight Michael Banks Repeta) will find an outlet in the authoritative delicacy of a progressive, touching life lesson.
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