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Tori et Lokita è prima di ogni altra cosa un film vero. indicibilmente umano ma quasi forzatamente concreto. Non poteva forse non esserlo; visto come sia il dodicesimo lungometraggio in trent’anni di un cinema dalla continua generosità morale e dall’invidiabile coerenza espressiva. Ma è l’attualità, l’urgenza di questa storia a colpirci immediatamente nell’epoca inflazionata, banalizzata dalle immagini.
Ecco allora una storia banale quanto crudele, come tante che potremmo avere sott’occhio. Tori ha tredici anni, ed in quanto orfano sbarcato da poco dal Benin è già in possesso dei documenti di soggiorno. Lokita è invece già adolescente, ma la domanda d’asilo stenta ad essere concessa. Sarà ben difficile che le autorità del Belgio accettino di considerarla sorella di Tori. Interrogata dai responsabili, nelle prime immagini del film, la vediamo allora circondata dalle domande, dall’assedio da parte delle regole. Un destino risaputo e ormai segnato dal quale non potrà che tentare di svincolarsi.
La solidarietà fraterna che s’istalla progressivamente fra i due dovrà affrontare allora tutta una serie di prove. Un fornaio, nel sotterraneo dove risuola soltanto la vice da un microfono che ordina le pizze: per due soldi, talvolta una focaccia raffreddata, li obbligherà a improvvisarsi fattorini della droga; non senza esigere qualche allegato sessuale. Poi, i trafficanti traghettatori che reclamano il dovuto; e una madre che al telefono dall’Africa accusa la figlia d’incassare i suoi miserabili spiccioli piuttosto che spedirglieli.
Nel rigore con il quale i Dardenne si accompagnano allo sconsolato ma talvolta disincantato quotidiano dei due giovani, grazie alla accuratezza degli autori nel cogliere i dettagli rivelatori degli ambienti, l’eco dei suoni, l’incertezza dei chiaroscuri nei quali i due giovani evolvono finisce per costruirsi un equilibrio quasi paradossale ma altamente coinvolgente.
Nella straordinaria naturalezza che abita i due protagonisti (splendidi i due esordienti Joely Mbundu e Pablo Schils,, come spesso succede con gli autori) accade allora che lo spettatore quasi si accosti a loro; e alla serie altrimenti quasi programmatica delle avversità. Ne nasce un sorta di affettuosa, delicata complicità, che finisce per legarci alla sconsolata evidenza di un percorso impossibile. Impossibile poiché chiaro fin dall’inizio di non potere contare sulla nostra consolazione.
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Tori et Lokita is first and foremost a true film. unspeakably human but almost forcibly concrete. Perhaps it could not be otherwise, given that it is the twelfth feature film in thirty years of a cinema of continuous moral generosity and enviable expressive coherence. But it is the topicality, the urgency of this story that immediately strikes us in this inflated era, trivialised by images.
Here, then, is a story as banal as it is cruel, like so many we might have in our sights. Tori is thirteen years old, and as an orphan recently disembarked from Benin, he already has his residence papers. Lokita, on the other hand, is already a teenager, but her application for asylum is struggling to be granted. It will be very difficult for the Belgian authorities to accept her as Tori's sister. Questioned by those in charge, in the first images of the film, we then see her surrounded by questions, by the siege of rules. A known and now sealed destiny from which she can only attempt to extricate herself.
The fraternal solidarity that is gradually established between the two will then have to face a whole series of trials. A baker, in the basement where only the deputy orders pizzas: for two pennies, sometimes a cold focaccia, he will force them to improvise as drug runners; not without demanding some sexual attachment. Then, the ferrymen who claim their due; and a mother who on the phone from Africa accuses her daughter of collecting her miserable pennies rather than sending them to her.
In the rigour with which the Dardenne accompany the disconsolate but sometimes playful daily life of the two young people, thanks to their accuracy in capturing the revealing details of environments, the echo of sounds, the uncertainty of the chiaroscuro in which the two young people evolve, an almost paradoxical balance ends up being constructed.
In the extraordinary naturalness that inhabits the two protagonists (the two newcomers Joely Mbundu and Pablo Schils are splendid, as often happens with authors), it then happens that the spectator almost clings to them; and to the otherwise almost programmatic series of adversities. A sort of affectionate, delicate complicity ensues, which ends up binding us to the disconsolate evidence of an impossible path. Impossible because it is clear from the outset that it cannot count on our consolation.
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