Leggo dal titolo di un quotidiano che sarebbe stata la peggior edizione del festival. Onestamente, non credo che sia con sparate del genere che si arrivi a qualcosa. Visto che ogni anno bisogna rifare i conti, rifacciamoli. Soffermiamoci allora ai film in concorso, cioè agli inediti, a quello che Locamo porta di nuovo alla luce del sole.
1976: l'ultima gran covata del cinema svizzero. LE GRAND SOIR, JONAS e Der Gehulfe. Poi, un grande film del terzo mondo (ma portato di peso a Locamo dalle rassegne di Cannes...), La raccolta, dell'etiope Gerìma. E Fangschuss di Schlöndorff. Più l'americano Pleasantville e, a voler essere molto generosi, il francese L'affiche rouge di Cassenti.
1977: è l'anno del ritiro di due opere die avrebbero dato un certo peso al festival, Der Hauptdarsteller di Hauff, e Bollwieser dì Fassbinder. Rimasero il sudafricano The guest (ignominosamente ignorato dalla giuria) e, un gradino più sotto, l'americano Passing Through, l'italiano Un anno di scuola, il sovietico La corona dei sonetti e i due film svizzeri, quelli di Patrizia Moraz e di Villy Hermann.
1978: in ordine decrescente, I fannulloni della valle fertile, La morte al lavoro, Girlfriends, Bako, Il profumo dei fiori di campo, Fingers, un film polacco e quello dell'attrice tedesca Von Trotta.
Quest'anno? A mio parere, e sempre in ordine decrescente, il turco Sürü, il polacco L'ospedale delle trasfigurazioni, Io svizzero Les petites fugues, l'ungherese La scuderia, il tedesco Letzte Liebe, il francese Félicité, l'italiano Immacolata e Concetta, l'altro tedesco I fuggitivi e gli americani Èlvis e The Plants Are Watching,, oltre allo svizzero Zona grigia che ha avuto molti sostenitori.
Da un esame, superficiale senza dubbio, appare evidente che la peggior edizione, e di gran lunga, è stata quella del 1977. Che quella del '76, senza l'ultimo miracolo nazionale, sarebbe risultata altrettanto deludente. Rimane quella di un anno fa e, sinceramente, mi sembra che siamo suppergiù allo stesso livello: ma a favore dell'edizione di quest'anno gioca il fatto che c'è un numero maggiore di opere inedite.
La situazione cambia se allarghiamo Il discorso ai film non in concorso, alle varie Informative. Qui il festival di quest'anno ha presentato due capolavori, il Wajda e l'Huston, e un buon film (Angi Vera). Più alcune opere interessanti, specialmente tedesche (Albert Warum?, Der Eintanzer, ecc.). Volendo, si poteva fare molto di più. E si arriva cosi ad un punto critico: le dichiarazioni avventate, per non dire autolesionistiche, della neocostituita Commissione Artistica. La nostra idea su Locamo l'abbiamo già espressa in passato fino alla noia. Festival da mese di agosto, con una struttura in piazza che deve soddisfare anche certe esigenze di spettacolo, in un paese di modesto sottofondo culturale, in un periodo dell'anno con buona parte della gente (specie i più giovani) in vacanza, con pochi soldi e sostegno politico da parte di un paese che non vede di buon occhio le sovvenzioni ad una cultura (quella cinematografica) atta a sovvertire determinati valori tradizionali. Il tutto in un mondo cinematografico dove i festival di cinema proliferano come da noi i risotti in piazza e le bandelle, dove i capolavori sono ovviamente non molti, e dove la crisi economica mondiale ha limitato la produzione, specialmente quella più giovane e quella meno conformista. E, aggiungo ancora, dove Locamo ha purtroppo perso gran parte della propria credibilità, ed i vantaggi di essere una delle manifestazioni più anziane: per i troppi cambiamenti al vertice, i tentennamenti, la mancanza di un filo conduttore preciso da sviluppare e far progredire nel corso degli anni. Per queste ragioni, sosteniamo da tempo, Locamo dovrebbe scegliere una specializzazione, e accostarla ad una programmazione fuori concorso di carattere informativo. Che servirebbe alla causa del buon cinema in un paese cinematograficamente squallido. Cosa dichiara, quindi, la Commissione artistica prima del Festival? Che quest'anno di grandi opere nelle sezioni Informative se n'erano messe poche perché era molto meglio mostrare ottimi film di autori sconosciuti, piuttosto che opere mediocri di grandi nomi . .. Quindi, visti i risultati, meglio la commediola début de siècle russa, o gli sterratori norvegesi che rincorrevano le ragazze al canto del cucù, o i cagnolini e le canzoncine del divorzio francese, i dischi di Endrigo e Paoli degli anni supposti struggenti, o ancora certi esotismi discutibili come l'indiano o l'africano, piuttosto che «opere mediocri» come Manhattan, di Woody Alien, Il tamburo di Schlondorff o Cristo si è fermato ad Eboli di Rosi. O, ancor più a ragione, opere che noi vedremo chissà quando, come Black Jack di Ken Loach, Senza anestesia di Wajda, Woyzcek di Herzog, Die dritte Generation di Fassbinder, Days of Heaven di Terence Malick.
Non dimentichiamoci che viviamo in un paese nel quale la distribuzione cinematografica non ha ancora acquistato L'uomo di marmo di Wajda, e in un Cantone nel quale non si sono ancora visti gli ultimi due film del più celebre regista contemporaneo americano, Altman (A Marriage e Quintet)... Noi pensiamo, cioè, che il programma di Locamo sia stato suppergiù come quelli precedenti, che di buoni film in circolazione ce ne siano in numero limitato, e che quindi con i mezzi a disposizione non si possano portare più di una mezza dozzina di buoni film inediti in concorso all'anno. Si tratta di aggiungerne altri sei che non siano infami, e che abbiano perlomeno un carattere informativo; e di evitare le inevitabili (?) sciocchezze.
Rimane da riempire una manifestazione di dieci giorni. Si trovino nuovi sbocchi, nuove formule. Ma, per carità, non si pecchi di presunzione com'è successo quest'anno. A proposito di formule: si sa che Locamo, da tempo, si dedica al cinema nuovo, del Terzo Mondo, eccetera. Anche questa è una bella ipocrisia. La verità è che si dedica a quello che trova. Che razza di festival del Terzo Mondo sarebbe una manifestazione che non presenta nemmeno un film dell'America latina, uno solo dell'Africa, uno dell'Asia, e via dicendo? Oppure: che tipo di festival dedicato a! cinema giovane sarebbe il nostro, visto che accanto ad opere discutibili ma indubbiamente nuove come Immacolata e Concetta, o Félicité, o magari anche The Plants are Watching, mette un regista che fa cinema da anni come il Kovacs della Scuderia? Come si giustifica l'accostamento di un esordiente e di un veterano? Perché questa è la verità: se a Locamo dessero un Bertolucci o un Wajda, o un Goretta in concorso, Io accoglierebbero come una benedizione del cielo.
E' quindi quello della formula, della strada principale da seguire, il quesito da risolvere. Una volta risolto, si innesti il lavoro di questa Commissione Artistica, sempre che questa non limiti eccessivamente la personalità del direttore. Sul lavoro svolto da questa Commissione è difficile sentenziare. SI dice, per esempio, che meglio avrebbe fatto a prendere il film di Vecchiali dalla Francia, piuttosto che lo sconclusionato Barouh, e mi sembra ovvio. Si dice che anche dall'Italia si sono scartati il Brusati ed il Bevilacqua per far posto a delle opere non certo eccelse. Ma bisognerebbe avere sott'occhio il quadro completo delle possibilità per poter dare un parere. Piuttosto, è sulla composizione di questa Commissione che nutriamo qualche dubbio: un solo ticinese (e già l'abbiamo fatto notare da tempo) e pochi svizzeri francesi. La mia impressione è che l'impronta diventi sempre più di matrice svizzero-tedesca, e che questa Impronta determini poi tutto un certo tipo di scelte. D'altro canto, più che ragione hanno gli svizzeri di oltre Gottardo a reclamare contro la sola parte che sia rimasta in mano ai ticinesi, quella tecnica. Nemmeno a farlo apposta è stata la più deficitaria del festival. Proiezioni imperfette in sale ai limiti delle condizioni igieniche. I locarnesi si lamentano del fatto di non avere una sala dei congressi, e dicono che gli ospiti... esagerano nelle loro esigenze tecniche. Dimenticano che vogliono fare un festival di arte cinematografica, e che non s'accorgono per cinque minuti che manca una parte dell'inquadratura o il sonoro. E che potrebbero almeno rendere più accettabili le condizioni di visionamento portando la sala principale al Rex piuttosto che al drammaticamente squallido Kursaal.
Ma, accanto ad un esame certosino delle opere, altri fattori segnano, sarebbe in mala fede non riconoscerlo, un notevole miglioramento del festival. La manifestazione è Indubbiamente più seguita (sia da ticinesi che da confederati, che da stranieri) e più dinamica che qualche anno fa. La splendida Retrospettiva dedicata al regista giapponese Ozu è stata il vero motivo di spicco culturale quest'anno: per una volta è stato colto il momento esatto, si è fatta coincidere la esigenza storica con quella artistica (era già successo con Sirk) e si è fatto qualcosa di eco internazionale. C'è solo da sperare che per l'anno prossimo non si sbagli la scelta. Le conferenze stampa sono anche leggermente migliorate, nella nuova sede del Grand Hotel. E, in modo particolare, il servizio stampa, il coordinamento fra i diversi servizi è immensamente migliorato rispetto a qualche anno fa. Meno pettegolezzi, insomma, e maggior professionalismo e cortesia.
Come sempre in queste occasioni, manca Io spazio per parlare dei film. Di uno solo si vorrebbe dire, poiché ridimensiona crudelmente tutti quelli passati nella seconda settimana, Le signorine di Wilko (Panny z Wilka), del polacco Wajda. Film forse troppo prezioso, troppo fragile, per porsi al termine di un festival, Le signorine di Wilko, conferma lo straordinario momento creativo che sta vivendo il grande regista polacco, certo una delle cose più affascinanti che ci offra il cinema degli ultimi anni. A quasi sessant'anni Wajda conduce in parallelo due discorsi altissimi. Da un lato il suo cinema sui problemi di oggi (L'uomo di marmo, Senza anestesia) nel quale egli rifugge dalla metafora, dalla fuga nel simbolismo o nell'alibi del film storico. E nel quale con una chiarezza impeccabile, ma senza mai cadere nello schematismo, denuncia i mali della nostra società. Il tutto con una vicinanza all'uomo, un senso della poesia che solo una padronanza inimitabile del mezzo può permettere.
Dall'altro lato, Wajda non rinuncia «a volare», come ci diceva a Locamo il suo interprete preferito, Daniel Olbrychsky. La luce folgorante delle Signorine di Wilko ci porta a meditare sulla fragilità dei sentimenti, sulla relatività dei valori quando questi sono attraversati dal trascorrere inesorabile del tempo. Tutto il cinema di Wajda, attualmente, è dominato dall'idea della morte. Ed è per sfuggire alla consunzione che il regista si è dedicato al cinema diretto, contemporaneo. Per la medesima ragione che il protagonista delle Signorine di Wilko tenta disperatamente di materializzare il ricordo. Cinema dell'indicibile, della rincorsa impossibile al sogno e al passato, l'ultimo film di Wajda merita una riflessione più ampia di questa offerta da un festival .