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TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
(THREE BILLBOARDS OUTSIDE EBBING, MISSOURI)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 16 gennaio 2018
 
di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Peter Dinklage (FOR ENGLISH VERSION SEE BELOW) (Stati Uniti, 2017)
 

Averne, di opere prime come questa. Lo dicevamo nel 2009, a proposito di Martin McDonagh e del suo primo lungometraggio, In Bruges: un giovane drammaturgo, destinato a diventare uno degli eredi di Harold Pinter, nato a Londra, ma di origine irlandese (e si sentiva). Con un cortometraggio, , Shooter, aveva addirittura già vinto un Oscar, nel 2005; nel quale, dietro la maestria dei dialoghi tipica dell’autore teatrale, già s’intuiva il nerbo visuale del cineasta.

Sono trascorsi, da allora, nove anni di consumistica bulimia, progressiva afflizione da prodotti prefabbricati e identici, destinati ormai a minacciare la diserzione dalle sale. Con qualche film stimolante, finalmente diverso, ma destinato a perdersi nel bailamme del marketing imperante.

Questo Tre manifesti sembra nato nel senso contrario. Non tanto per la sua storia: quella di Mildred, esausta ma indomita, dopo mesi in attesa che qualcosa si sappia della figlia: stuprata, e quindi selvaggiamente uccisa da uno sconosciuto. Con i pochi risparmi, Mildred affiggerà tre enormi cartelloni pubblicitari lungo una strada di quel tranquillo Missouri, allo scopo di denunciare l’indolenza della polizia. Una situazione tragica, a suo modo risaputa: ma, come in tutto il cinema che conta, è il modo di rappresentarla a significarla.

Pur mantenendo una progressione che mai si diparte dalla logica, il film è ad ogni suo istante imprevedibile. Frances McDormand (in attesa di un Oscar che sarà impossibile non assegnarle), la protagonista di Fargo, uno dei capolavori dei fratelli Coen ¸ è la madre in cerca di giustizia, immensa nella propria cocciuta risoluzione. Riservata nella sua sofferenza; ma nemmeno lei, in questa faccenda, indiscutibilmente buona o innocente. Cosi come lo sceriffo, non di certo infame, Woody Harrelson; e il suo assistente Sam Rockwell, poliziotto becero e violento. Entrambi memorabili, sembrano collocati su una scacchiera stravagante: quasi allo scopo di farci dubitare dei cattivi, ma egualmente dei buoni. A somiglianza di tutti i suoi personaggi, il tono del film (e quindi il suo significato più intimo) è allora sempre conseguente: ma in una evoluzione deliziosamente imprevedibile, comico e tragico, paradossale e realista, lucido e sarcastico.

Certo, dietro ad ogni immagine risalta la denuncia di una violenza rozza, del persistente maschilismo nella nostra epoca: ma le intenzioni sono sfumate dai toni costantemente cangianti che rimandano alle diverse venature cinematografiche, il noir, ma anche il western o la commedia, il ripensamento post-moderno. Cosi, nel tono iniziale della vendetta e della intransigenza s’inserisce dapprima quello del grottesco, talvolta tragico, a tratti spassoso; nel dolore e l’impotenza, il dubbio che nasce del paradosso, il desiderio, forse tardivo, di capire. Una meccanica enorme e sapiente, quella assemblata da Martin McDonagh, che anche avrebbe potuto travolgerlo. Succede, al contrario, con le certezze: dei personaggi e delle nostre.

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Here's to first works like this. We said this in 2009, about Martin McDonagh and his first feature film, In Bruges: a young playwright, destined to become one of Harold Pinter's heirs, born in London, but of Irish origin (and he felt it). With a short film, Shooter, he had already won an Oscar, in 2005; in which, behind the playwright's mastery of dialogue, the filmmaker's visual nerve was already apparent.

Since then, nine years have passed of consumerist bulimia, progressive affliction by prefabricated and identical products, now threatening desertion from the theatres. With a few stimulating films, finally different, but destined to get lost in the blizzard of prevailing marketing.

This Three Posters seems to be born in the opposite direction. Not so much for its story: that of Mildred, exhausted but indomitable, after months waiting for something to be known about her daughter: raped, and then savagely murdered by a stranger. With the little she had saved, Mildred put up three huge billboards along a street in that quiet Missouri, in order to denounce police indolence. A tragic situation, well known in its own way: but, as in all cinema that matters, it is the way it is represented that signifies it.

While maintaining a progression that never departs from logic, the film is unpredictable at every turn. Frances McDormand (awaiting an Oscar that will be impossible not to award her), the protagonist of Fargo, one of the Coen brothers' masterpieces ¸ is the mother in search of justice, immense in her own stubborn resolution. Reserved in her suffering; but neither is she, in this matter, indisputably good or innocent. As is the sheriff, certainly not infamous, Woody Harrelson; and his assistant Sam Rockwell, a boorish and violent policeman. Both memorable, they seem placed on an extravagant chessboard: almost with the aim of making us doubt the bad guys, but equally the good guys. Like all his characters, the tone of the film (and thus its innermost meaning) is then always consequential: but in a delightfully unpredictable evolution, comic and tragic, paradoxical and realistic, lucid and sarcastic.

Of course, behind every image stands the denunciation of a crude violence, of the persistent machismo in our time: but the intentions are nuanced by the constantly changing tones that refer to the different cinematic veins, the noir, but also the western or the comedy, the post-modern rethinking. Thus, in the initial tone of vengeance and intransigence, the grotesque, sometimes tragic, sometimes hilarious is inserted; in the pain and helplessness, the doubt arising from the paradox, the desire, perhaps belatedly, to understand. An enormous and skilful mechanics, the one assembled by Martin McDonagh, which also could have overwhelmed. It happens, on the contrary, with certainties: of the characters and of our own.

 


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