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Piacerà o meno - avviene regolarmente con il regista messicano dai tempi del suo eclatante esordio nel 2000 con Amores Perros - ma è impossibile negare a Alejandro Inarritu il talento fuori dal comune, l’energia nell’impatto espressivo che lo distingue fra i cineasti contemporanei. Nel 2006, però, dilagò l’inquietudine: chi avrebbe incanalato tutta quell’inventiva con la partenza di Guillermo Arriaga, il celebre scrittore, lo sceneggiatore degli affascinanti mosaici spaziali e temporali, delle interazioni intriganti e casuali fra i personaggi che avevano esaltato le opere del regista fino a Babel?
Ora, gli ultimi due film di Inarritu, ognuno a loro modo straordinari, non possono che rassicurare. Meglio, il clamoroso rovesciamento stilistico e di tono di Revenant – Redivivo rispetto al clima claustrofobico e agli intendimenti nevrotico-intellettuali di Birdman, conferma non solo l’ambizione, ma tutto il potenziale di rinnovamento artistico del regista messicano trapiantato a Hollywood.
The Revenant è un film folgorante, ma anche duro. E come potrebbe non esserlo una “revenge movie” ambientata in una dimensione quasi preistorica; un pre-western, situato nel Missouri agli inizi del diciannovesimo secolo, agli albori di un “capitalismo” fra i primi cacciatori di pelli, delle leggi del profitto spietato imposte dai pionieri agli indigeni. Una situazione violenta (l’incredibile dinamica delle sequenze iniziali, le frecce degli indiani che trafiggono pure noi, grazie a meravigliosi piani-sequenza girati con i grandangoli digitali) che con i suoi rinvii alla contemporaneità acquista un interesse che alimenta quello, più classico dell’aneddoto d’epoca. Glass, la guida incaricata di ricondurre la spedizione dei mercanti al forte, viene aggredito da un grizzly (iniziando così l’impressionante trasformismo fisico e psicologico di Leonardo DiCaprio che lo condurrà di filato all’Oscar)): dilaniato dall’orso in una sequenza impossibile da dimenticare, viene creduto in fin di vita, quindi abbandonato dai compagni. Da qui la tremenda odissea, le 200 miglia del protagonista per sopravvivere e vendicarsi.
Una storia vera, ripresa in un romanzo di Michael Punke che Richard Sarafian aveva già illustrato nel 1971 in Man in the Wilderness; e che Inarritu, assieme a uno stoico e indubbiamente straordinario DiCaprio, stravolgono progressivamente. Il fascino di Redivivo nasce infatti dal suo realismo estremo; al tempo stesso, da una vertiginosa fuga visionaria. A questa duplicità concorre il verismo incombente dei meravigliosi paesaggi canadesi e della Terra del Fuoco ripresi da Emmanuel Lubezki. Ma il grande fotografo di Terence Malick e Inarritu ottengono anche l’opposto: la squisita illuminazione sempre naturale (il fuoco dei bivacchi, la luce fugace dell’Artico) proietta il film nelle oscure destabilizzazioni del surrealismo. L’apporto di uno scenografo come il Jack Fisk di Lynch, Malick e P.T. Anderson, l’eco straniante del commento musicale di Ryuchi Sakamoto con Alva Noto accompagnano allora quell’immersione così sofferta nella natura selvaggia che è anche un itinerario nel buco nero di un territorio pre-civilizzato; alla ricerca del bagliore minimo di un valore umano e civile. Prima di un duello finale appartenente alla tradizione del genere (e dopo alcuni inciampi narrativi, qualche trasporto metafisico di qualcuno che non teme di avventurarsi sopra le righe) attraverso lo sguardo di Alejandro Inarritu affiorano ancora riferimenti nobili, il Jeremiah Johnson di Sidney Pollack o il Boorman di Un tranquillo weekend di paura, certi quadri di Tarkovski, le sfide proibitive di Herzog, magari Apocalypse Now e, ovviamente, Malick. C’è chi li considera capricci un po' furbi e narcisi del genietto; altri, degno approdo per un film comunque memorabile..
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Whether one likes it or not - it has been the case with the Mexican director since his resounding debut in 2000 with AMORES PERROS - it is impossible to deny Alejandro Inarritu's uncommon talent, the energy of expressive impact that distinguishes him among contemporary filmmakers. In 2006, however, disquiet was rampant: who would channel all that inventiveness with the departure of Guillermo Arriaga, the celebrated writer, the scriptwriter of the fascinating spatial and temporal mosaics, of the intriguing and random interactions between characters that had exalted the director's work up to BABEL? Now, Inarritu's last two films, each extraordinary in their own way, can only reassure. Better still, the resounding stylistic and tonal reversal of THE REVENANT-REVIVING compared to the claustrophobic atmosphere and neurotic-intellectual intentions of BIRDMAN-confirms not only the ambition, but the entire artistic renewal potential of the Mexican director transplanted to Hollywood. THE REVENANTis a dazzling film, but also a tough one. And how could it not be a revenge movie set in an almost prehistoric dimension; a pre-western, located in Missouri at the beginning of the 19th century, at the dawn of capitalism among the first trappers, of the laws of ruthless profit imposed by the pioneers on the natives. A violent situation (the incredible dynamics of the opening sequences, the Indians' arrows that also pierce us, thanks to marvellous sequence-plans shot with digital wide-angles) that with its references to contemporaneity acquires an interest that feeds the more classic one of the period anecdote. Glass, the guide in charge of leading the merchants' expedition back to the fort, is attacked by a grizzly (thus beginning Leonardo DiCaprio's impressive physical and psychological transformation that will lead him straight to the Oscar)): mauled by the bear in a sequence impossible to forget, he is believed to be dying, then abandoned by his companions. Hence the tremendous odyssey, the protagonist's 200 miles to survive and take revenge. A true story, taken from a novel by Michael Punke, which Richard Sarafian had already illustrated in 1971 in MAN IN THE WILDERNESS; and which Inarritu, together with a stoic and undoubtedly extraordinary DiCaprio, progressively distorts. REDIVIVO's fascination stems in fact from its extreme realism; at the same time, from a vertiginous visionary flight. Contributing to this duplicity is the looming verism of the marvellous Canadian and Tierra del Fuego landscapes shot by Emmanuel Lubezki. But Terence Malick and Inarritu's great cinematographer also achieve the opposite: the exquisite, always natural lighting (the fire of the bivouacs, the fleeting light of the Arctic) projects the film into the dark destabilisations of surrealism. The contribution of a set designer such as Lynch, Malick and P.T. Anderson's Jack Fisk, the alienating echo of Ryuchi Sakamoto's musical commentary with Alva Noto accompany that painful immersion in the wilderness that is also an itinerary in the black hole of a pre-civilised territory; in search of the minimum glow of a human and civilised value. Before a final duel belonging to the genre's tradition (and after a few narrative stumbles, a few metaphysical transports of someone who is not afraid to venture over the lines), noble references still surface through Alejandro Inarritu's gaze, Sidney Pollack's Jeremiah Johnson or the Boorman of A Quiet Weekend of Fear, certain paintings by Tarkovski, the prohibitive challenges of Herzog, perhaps Apocalypse Now and, of course, Malick. There are those who consider them somewhat cunning and narcissistic whims of the genius; others, a worthy landing place for a film that is nevertheless memorable.
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