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FESTIVAL DI CANNES 2000 (3): JIANG WEN, EDWARD YANG, ULLMANN
  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 agosto 2000
 
Jiang,Wen, Edward Yang, Ullmann (2000)
 

DIETRO LE STELLETTE DI CANNES

Quello delle stellette, anche quando proposto come qui a livello superiore (Positif è, assieme ai Cahiers du Cinéma la più celebre delle riviste specializzate europee; Jean - Michel Frodon per Le Monde ed Irene Bignardi su Repubblica sono due delle firme più prestigiose della critica cinematografica quotidiana; Max Tessier un esploratore tra i più esperti delle tendenze mondiali) rimane quello che è, un gioco. Ma, applicato ad un azzardo com'è quello del Concorso più ambito, temuto, criticato ed infine saccheggiato nel resto dell'anno dalla distribuzione mondiale, un rivelatore non indifferente dell'aria che tira. Spostamento dell'asse creativo verso Oriente, autenticità creativa, purezza d'ispirazione, efficacia nella semplicità delle invenzioni formali di quelle cinematografie (e, all'opposto, banalizzazione degli schemi e dei temi trattati nelle produzioni occidentali), sovrapproduzione globale come per qualsiasi altro bene di consumo, lunghezza delle pellicole oltre quella che è considerata la soglia di sopportazione, sovraoccupazione e disorientamento della critica audiovisiva, avvento continuo di nuove tecnologie, fragilità della memoria bombardata dalla promozione, conseguente diminuzione del periodo utile allo sfruttamento economico di una pellicola sono alcuni degli elementi che stanno modificando il nostro rapporto con il consumo dell'immagine. Le conseguenze, le conferme, le contraddizioni sono allora evidenziate anche nei limiti di uno schema puramente ludico come questo. E qualcosa, nel regno di Cinelandia, non deve quadrare: se, dopo un secolo di vita, sembra impossibile mettersi d'accordo sul fatto che la Palma d'Oro di Lars von Trier sia uno straordinario capolavoro; oppure, come pretendono due critici su cinque qui sopra, una furbata speculativa da "vedere eventualmente"&Altri dettagli, però, trovano conferma fra quei segni. Il cinema cinese, taiwanese, coreano continua la propria inarrestabile ascesa; e quello giapponese sembra ritrovare i fasti memorabili di un tempo. Fra le opere alle quali non abbiamo ancora accennato, I DIAVOLI ALLA PORTA (giustamente ricompensato con il Gran Premio della Giuria, in pratica l'argento) dell'attore-regista cinese Jiang Wen è un'opera frenetica: stilizzata in un bianco e nero squarciato dalla luce radente, dipinge gli avvenimenti tragicomici tra i contadini dell'ultima guerra cino-giapponese. Una lunga commedia grottesca, nella quale i toni picareschi sono nobilitati dalla splendida fotografia, e dall'energia degli attori; una parabola, incredibilmente in bilico tra comicità' e violenza sull'assurdità' della guerra, forse eccessiva nella durata come nelle ambizioni, ma sorretta da un virtuosismo a tratti magistrale. Al polo opposto, la commovente serenità contemplativa, la profonda emozione con la quale Edward Yang sa tradurre nella regia tranquillamente creativa (che lezione, nell'epoca dei tumulti magari magistrali ma isterici dell'epoca Tarantino) di YI YI compone quello che, in assoluto, è stato forse il film sovrano di Cannes 2000: un intreccio cosi ampio di destini quotidiani da meritare appieno, una volta tanto, le tre ore di proiezione. Gli acquari urbani di Taipei o Tokio diventano dei contenitori nei quali la commedia e il dramma che accompagnano i diversi protagonisti (dal ragazzino irresistibile che si apre alla vita, alla nonna che la chiude in coma, passando attraverso amori mai nati o persi per strada) conducono ad un'armonia e ad un approfondimento umano indimenticabile.Se Cannes significa qualcosa, è l'Europa latina ad essere in crisi. Deludente, in definitiva, il cinema intellettuale che la Francia finisce immancabilmente per proporre, è con il nord, l'Austria di Haneke, ma soprattutto la Svezia di Liv Ullmann e di Roy Andersson che l'Occidente salva la faccia. INFEDELE, o l'anatomia di un adulterio. Con una di quelle sceneggiature delle quali il grande Ingmar Bergman anche recluso nella sua isola detiene il segreto, si penetra nelle conseguenze, più che motivazioni di una reciproca infedeltà. Scandinava, bergmaniana, naturalmente; con tutto ciò che di tortuoso e colpevolizzante comporta. Ma, il vero miracolo del film è quello di far nascere a distanza, quasi da un altro pianeta ormai disabitato, la meravigliosa geometria, l'introspezione progressiva della scrittura del maestro. Con misura, appoggiandosi agli splendidi attori, Liv Ullmann restituisce quell'energia e quella perspicacia con una discrezione che non significa mai rinuncia.

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