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INDIANA JONES E L'ULTIMA CROCIATA
(INDIANA JONES AND THE LAST CRUSADE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 ottobre 1989
 
di Steven Spielberg, con Harrison Ford, Sean Connery (Stati Uniti, 1989)
 

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Indiana Jones si è trovato un papà. Ed un papà come Sean Connery; del quale si scopre, a 47 anni (l'età , mi scuseranno le ammiratrici, di Harrison Ford) che se è piuttosto versato in archeologia, è decisamente nullo nel celebrare il rito-principe della nostra generazione, il mitico dialogo padre-figlio. Così, come a quella celebre bottiglia mezza vuota o mezza piena, all'ultimo film di Spielberg si finirà per guardare in due soli modi.

Con pieno gaudio: per il ritrovamento di cui sopra (effettivamente assai più stimolante di quello delle Arche, Graal e suppellettili varie alle quali ci aveva abituato l'Eroe-Fanciullo), che dovrebbe favorire l'inserimento del personaggio e delle sue vicende in una prospettiva più umana, più definibile psicologicamente. O con profonda depressione: per il ritorno all'indietro, al cinema di papà appunto , fatto di schemi che dalla " nouvelle vague " in poi quasi tutti si sono applicati a scardinare: da parte di quel cineasta che proprio sul principio della " spinta in avanti " aveva costruito la propria poetica.

Anche se, nella selva sommersa da finanzieri e computer del cinema americano diventa sempre più difficile capire a chi appartenga l'umore di un film (al produttore Lucas, al regista Spielberg, all'attore Ford?) è infatti almeno chiara una cosa: che di umore malinconico si tratti. Perché no, mi direte: dopotutto, a colpi d'imprese più o meno stellari i nostri tre possono anche aver voglia di rifiatare. Mica tanto: se dovete far finta di crederci ancora, perché così ha deciso la legge del mercato. E se vi chiamate Steven Spielberg. Che non sarebbe stato che un discreto disegnatore di fumetti senza alcune qualità: quella della purezza, ad esempio. Che permette di trasformare degli Eroi adulti in Fanciulli, eternamente meravigliati. O di trasformare i fantasmi adolescenziali in referenze cinematografiche. E quella della fede: nella possibilità per il quotidiano, per il banale, per il piccolo borghese caro a John Ford o a Hitchcock, di accedere al Sogno, primo fra tutti, ovviamente quello americanissimo della nuova frontiera.

Spielberg aveva un suo trucco (ognuno deve pur sapersi arrangiare) per trasformare i suoi esseri vergini ed innocenti in fantastici marziani: quello della dinamica. I suoi personaggi, le costruzioni drammatiche e le situazioni dei suoi film sono sempre state dei pretesti di movimento: delle idee, delle emozioni, degli esseri umani come degli animali, degli extraterrestri o delle costruzioni meccaniche tradotte in energia. Così il camion di DUEL, lo squalo di JAWS, le auto di SUGARLAND EXPRESS, i vascelli di INCONTRI RAVVICINATI o i vagoncini di INDIANA JONES. Grazie a questa energia dinamica, grazie a questa inarrestabile fuga in avanti delle sue costruzioni i fumettoni di Spielberg, i percorsi geografici di Indiana Jones e compagni si trasformavano in qualcosa di più astratto e di più prezioso: in percorsi iniziatici, in itinerari morali.

Senza rincorsa, senza meraviglia, senza invenzione all'interno di ogni situazione, senza insomma l'incoscienza giovanile di trasformare trenta milioni di dollari in un'enorme scommessa, il tutto si sgonfia: rimane un cinema che una volta si chiamava d'avventura, fatto di schemi calcolati ed a tratti riusciti.Il cinema dei nonni per il sabato pomeriggio dei nipoti.

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Indiana Jones has found himself a daddy. And a dad like Sean Connery; of whom one discovers, at the age of 47 (Harrison Ford's age, I apologise to his female admirers), that if he is rather well versed in archaeology, he is decidedly lacking in celebrating the rite-prince of our generation, the mythical father-son dialogue. Thus, like that famous half-empty or half-full bottle, one will end up looking at Spielberg's latest film in only two ways.

With great joy: for the above-mentioned discovery (actually much more stimulating than the one of the Arks, Grail and various furnishings to which the Hero-Child had accustomed us), which should favour the insertion of the character and his vicissitudes in a more human perspective, more psychologically definable. Or with deep depression: for the return back to the past, to Dad's cinema, made up of schemes that from the 'nouvelle vague' onwards almost everyone has applied themselves to unhinging: on the part of the filmmaker who had built his own poetics on the very principle of the 'push forward'.

Even if, in the financier- and computer-swamped wilderness of American cinema, it becomes increasingly difficult to understand to whom the mood of a film belongs (to producer Lucas, director Spielberg, actor Ford?), one thing is at least clear: that it is a melancholic mood. Why not, you might say: after all, with their more or less stellar exploits, our three may well feel like taking a breather. Not so much: if you have to pretend you still believe in them, because the law of the market has decided so. And if your name is Steven Spielberg. That he would only be a decent comic book artist without certain qualities: that of purity, for example. Which allows you to transform adult Heroes into eternally amazed Children. Or to transform adolescent ghosts into cinematic references.

And that of faith: in the possibility for the everyday, for the banal, for the petty bourgeois dear to John Ford or Hitchcock, to access the Dream, first and foremost, of course, the American Dream of the new frontier. Spielberg had his own trick (everyone has to know how to get by) to transform his virginal and innocent beings into fantastic Martians: that of dynamics. His characters, dramatic constructions and situations in his films have always been pretexts for movement: of ideas, emotions, human beings as well as animals, extraterrestrials or mechanical constructions translated into energy. Thus the truck in DUEL, the shark in JAWS, the cars in SUGARLAND EXPRESS, the vessels in WEAK ENCOUNTERS or the wagons in INDIANA JONES. Thanks to this dynamic energy, thanks to this unstoppable forward flight of his constructions, Spielberg's comic strips, the geographical routes of Indiana Jones and co. were transformed into something more abstract and more precious: into initiatory routes, into moral itineraries.

Without chase, without wonder, without invention within each situation, without, in short, the youthful recklessness of turning thirty million dollars into a huge gamble, the whole thing deflates: it remains a cinema that used to be called adventure cinema, made up of calculated and sometimes successful schemes. Grandparents' cinema for their grandchildren's Saturday afternoons.

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