Averne, di opere prime come questa. Di un giovane ma già noto drammaturgo, nato a Londra ma di origine irlandese (e si sente), che a guardare bene non sbarca dal nulla poiché il suo corto SIX SHOOTER aveva vinto semplicemente un Oscar nel 2005. Ma la bulimia consumistica della produzione cinematografica, oltre che affliggerci con tutta una serie di prodotti prefabbricati e identici, che lasciano del tutto indifferente il pubblico disertore dalle sale, conduce a conseguenze forse ancora più gravi. Che qualche film originale, stimolante e finalmente diverso si perda nel bailamme del marketing imperante.
Qual'è infatti l'apparenza che arrischia di banalizzare a priori un film come IN BRUGES? Un thriller, di quelli che se ne producono a bizzeffe per riempire gli spazi attorno ai tiggì: due killer sono spediti dal mandante a far perdere le loro tracce a Bruges. Nell'oleografia celebre della Venezia del Nord (canali e architetture gotiche, androni rinascimentali e turisti con il boccale di birra) entro la quale il film sembra dapprima sprofondare con l'entusiasmo raccapricciante di un documentario turistico, i due reagiscono a modo loro. Uno (l'impassibile, straordinario Brendan Gleeson) apprezzando i gioielli dell'arte con tanto di guida; l'altro, (un Colin Farrell sopra le righe, ma che finirà per giustificarsi a meraviglia) annoiandosi a morte se non fosse per qualche arrischiata evasione sentimentale.
Solo che, dietro la sopraffina quanto un po' ovvia seduzione della cittadina fiamminga, il film noir del sorprendente Martin McDonagh ne nasconde un'altra: surrealista e paradossale, esilarante e melanconica, esaltata e crepuscolare. Qualcosa nata fra le attese alla Becket e cresciuta alle rese dei conti (le sole un po' scontate) disperatamente scorsesiane, attraverso i divertissement alla moda cari ai seguaci di Tarantino e dei Coen. Tante sorprese: risultanti da una drammaturgia esemplare, articolata e al tempo stesso disinvolta, che affronta temi cupi come quelli della colpa, del rimorso e dell'espiazione con una leggerezza gradevolmente incosciente; dei dialoghi che riescono a diluire l'inquietudine del tema addirittura nell'umorismo; una direzione d'attori (l'arrivo di un inarrivabile Ralph Fiennes che fa ripartire il racconto in un'ennesima direzione) d'impeccabile funzionalità e una regia che sa servirsi di tutto quel materiale per non affogare nell'estetica e nei significati dell'ovvio.