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CASINÒ
(CASINO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 marzo 1996
 
di Martin Scorsese, con Robert de Niro, Sharon Stone, Joe Pesci, James Woods (Stati Uniti, 1995)
 

(FOR ENGLISH VERSION SEE BELOW)

No, CASINÒ non è, come hanno detto gli americani, "ancora un film sulla Mafia". O la semplice continuazione di uno dei film più cari a Martin Scorsese, GOODFELLAS (QUEI BRAVI RAGAZZI); o l'ennesima variazione su uno dei suoi temi prediletti, l'ascesa al potere (ed eventualmente al martirio, comunque all'autopunizione) di un eroe destinato al crollo ed alla distruzione, ad immagine del sistema che lo ha creato. Anche se di gangster si tratta pur sempre, e di uno del tutto particolare: Sam "Asso" Rothstein (in realtà Frank "Lefty" Rosenthal), grande innovatore nel campo del gioco d'azzardo quanto modesta pedina in quello della malavita, sbarcato a Las Vegas all'inizio degli anni Settanta e diventato in breve, e per la durata di almeno un decennio potentissimo e ricchissimo direttore di quattro case da gioco, despota temuto e rispettato: in quella sorta d'inferno su terra, che le immagini iniziali di CASINÒ mirabilmente inseriscono nella tradizionale tematica mistico-realistica dell'autore di TAXI DRIVER. Infine, referente della Mafia: che di quell'inferno era stata creatrice, padrona e demiurga, prima che una nuova America si affacciasse all'orizzonte.

Ma GOODFELLAS era un film semplice, basato su pochi personaggi ed una storia compatta: l'assuefazione alla violenza, la quotidianità del crimine, la banalizzazione dell'atto di uccidere. CASINÒ è un film assai più complesso ed ambizioso, che con quel precedente non ha in comune che una sorta d'impotente rassegnazione: i personaggi di Scorsese non trascendono ormai più nella loro sofferenza (come quelli di TAXI DRIVER, di TORO SCATENATO o, naturalmente, de L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO). Essi vivono fino in fondo il proprio destino o, piuttosto, la propria natura: fino ad essere pensionati (come il protagonista di GOODFELLAS), o sepolti vivi (il violento Joe Pesci di CASINÒ) o disintegrati prima di un eterno ricominciamento, come il personaggio di de Niro. La connivenza con la Mafia li ha resi praticamente invulnerabili: e la loro assuefazione ad un uso del potere in qualche sorta normalizzato ha tolto loro ogni freno inibitorio, anche meramente logico. Fino all'autodistruzione.

La complessità di CASINÒ lo rende - a seconda dei punti di vista, della natura dello spettatore - portentosamente più ricco (oppure relativamente meno compiuto) di quei suoi precedenti: al suo interno evolvono molti personaggi, tutti con una loro storia, ma non governati da un intrigo. Se l'ebreo de Niro rappresenta il crimine manipolatore, trattenuto ed interiorizzato, quello che cerca di rispettare le forme e l'autorità costituita per imporsi con la forza dell'ineluttabilità, l'italiano Joe Pesci, inviato all'inizio dalla Mafia per tenere d'occhio l'amico, è il lato barbaro, incontrollato della perversione criminale. A far precipitare una meccanica oliata alla perfezione concorrerà la sete progressiva del potere, oltre che del denaro; la degenerazione di un sistema fondato sull'estorsione e sull'esasperazione del controllo, generato dal sospetto. Concorrerà l'apparizione di Ginger, intravista per la prima volta da de Niro proprio attraverso uno di quegli schermi audiovisivi di controllo. Ginger la prostituta di lusso, la creatura per eccellenza di quell'universo di cupidigia sfrenata e di rutilante apparenza, interpretata da una Sharon Stone che si è buttata a capofitto nell'avventura. Il personaggio ostico fino all'antipatia di Ginger è una delle perle di CASINÒ: ed in assoluto quello femminile più interessante e compiuto che Scorsese sia riuscito a creare in tutta la sua carriera. Altera e contraddittoria, corrotta e sfuggente: ma al tempo stesso vulnerabile e fragile, cosi dilaniata dalle due violenze - quella paternalistica di Ace, e quella indifferente di Nicky - alle quali è costretta a ricorrere.

La complessità di CASINÒ nasce quindi dal fatto di essere egualmente pubblico e privato. Film sulla coppia, sul trio, sulla fiducia ed il tradimento; ma pure sulla sistematizzazione del crimine, sulla mafia, il gioco, tutta un'epoca. Per riuscire tutto ciò in uno spazio pur sempre limitato (tre ore di proiezione, che trascorrono in un attimo) Scorsese ha sovrapposto due filoni: quello praticamente, documentaristico della descrizione di un sistema, a quello di finzione più tradizionale. Ed i primi tre quarti d'ora - di straordinaria introspezione espressiva- del film servono proprio ad introdurci nella meccanica di quel sistema: come si spennavano i polli, come la Mafia "scremava" gli immensi profitti, come la disumanizzazione dei personaggi rendeva possibile l'apparente immutabile perfezione di un artigianato delittuoso. Sarà soltanto con l'invasione del privato, con l'apparizione di Ginger, con il dilagare dello strapotere di de Niro, della violenza di Pesci che CASINÒ si avvierà finalmente in controtendenza. Per condurre all'autodistruzione una parte dei protagonisti, per decretarne l'eterna impunità di altri: soprattutto, per condurci alla fine di un'epoca. All'avvento di un America diversa e (come dichiara il cineasta americano più vicino alla sofferenza ed alla distruzione, fino a quella ambiguità che si riscatta in quanto sorgente di poesia) non necessariamente migliore: una sorta di Disneyland generalizzata, nella quale il perbenismo affaristico nasconde a malapena la degenerazione del Sogno americano.

Dopo tutta l'arte registica trattenuta che aveva caratterizzato L'ETÀ DELL'INNOCENZA, quella di CASINÒ segna l'esplosione inventiva del più spregiudicato creatore di forme americano. In essa convivono tutti i mezzi che la regia concede al cineasta, quelli che conducono il suo cinema dal verismo di MEAN STREETS all'astrazione di AFTER HOURS, in un continuo, affascinante gioco di specchi: dall'universo notturno e claustrofobico delle case da gioco non usciremo che per brevi istanti, verso il silenzio accecante e sovente mortale del deserto. Come in un furibondo inventario espressivo, un'infinità di tagli d'immagine dovuti all'uso di focali lunghe o larghissime, di illuminazioni improvvise, sovraesposizioni folgoranti che traducono cosi bene l'effimero dei luoghi, di dominanti cromatiche, di un uso sapientissimo del montaggio che alterna rallentamenti ed accelerazioni, immagini fisse ad altre frammentate conducono ad un caleidoscopio vertiginoso ed ubriacante. Un uso inedito della voce fuori campo (con il commento duplice, da parte dei due compari-antagonisti) si preoccupa di riordinare questo universo d'informazioni e di sensazioni; ed ancora un utilizzo raffinato della colonna sonora, una scelta raffinata, allusiva dei pezzi musicali d'epoca.

Frammento a tratti portentoso dell'uso di un linguaggio, CASINÒ è pure quello specchio d'America voluto dall'autore? C'è da dubitarne, ed il primo a farlo è proprio Scorsese: "durante le riprese di CASINÒ l'angoscia ha avuto spesso il sopravvento sul piacere. Il compito era immenso: non come in GOODFELLAS dove avevo tutto in mente, dove la sceneggiatura era precisa nei minimi dettagli. Qui, a forza di tirare tutti i fili del racconto, avevo l'impressione del giocoliere con cinque palle allo stesso tempo".

Ed un po' di questo si tratta: come se (per mancanza di tempo, per la presunzione del creatore che raggiunge quella della sue creature?) l'enorme massa d'informazioni, di suggestioni, di emozioni che lo strapotere creativo di Scorsese metteva a disposizione dello spettatore faticasse ad ordinarsi. Per accedere infine a quella dimensione superiore alla quale sicuramente Scorsese aspirava: quella di una storia che non fosse soltanto dei superman di Las Vegas, ma degli americani e di noi tutti. Film immenso e poliedrico, CASINÒ va insomma rivisto ed assimilato; per il nostro piacere immutato.

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No, CASINÒ is not, as the Americans put it, 'yet another Mafia film'. It is either a simple continuation of one of Martin Scorsese's favourite films, GOODFELLAS (THOSE GOOD GUYS); or yet another variation on one of his favourite themes, the rise to power (and possibly martyrdom, at any rate self-punishment) of a hero doomed to collapse and destruction, in the image of the system that created him. Even if it is still a gangster, and a very special one at that: Sam "Ace" Rothstein (in reality Frank "Lefty" Rosenthal), a great innovator in the field of gambling as much as a modest pawn in that of the underworld, who landed in Las Vegas at the beginning of the 1970s and quickly became, and for the duration of at least a decade, a powerful and extremely rich director of four gambling houses, a feared and respected despot: in that sort of hell on earth, which the opening images of CASINÒ admirably fit into the traditional mystical-realistic theme of the author of TAXI DRIVER. Lastly, reference to the Mafia: which had been the creator, mistress and demiurge of that hell, before a new America appeared on the horizon.

But GOODFELLAS was a simple film, based on a few characters and a compact story: the addiction to violence, the everydayness of crime, the trivialisation of the act of killing. CASINÒ is a much more complex and ambitious film, which has nothing in common with its predecessor except a kind of impotent resignation: Scorsese's characters no longer transcend their suffering (like those in TAXI DRIVER, TORO SCATENATO or, of course, THE LAST TENTION OF CHRIST). They live their destiny or, rather, their nature to the full: to the point of being retired (like the protagonist of GOODFELLAS), or buried alive (the violent Joe Pesci of CASINÒ) or disintegrated before an eternal restart, like de Niro's character. Connivance with the Mafia has made them practically invulnerable: and their habituation to a somewhat normalised use of power has robbed them of all inhibitions, even merely logical ones. To the point of self-destruction.

The complexity of CASINÒ makes it - depending on one's point of view, the nature of the viewer - portentously richer (or relatively less accomplished) than its predecessors: within it, many characters evolve, all with their own history, but not governed by intrigue. If the Jew de Niro represents the manipulative, restrained and internalised crime, the one that tries to respect forms and constituted authority to impose itself with the force of inevitability, the Italian Joe Pesci, sent at the beginning by the Mafia to keep an eye on his friend, is the barbaric, uncontrolled side of criminal perversion. The progressive thirst for power, as well as for money, will contribute to bringing down a perfectly oiled mechanism; the degeneration of a system based on extortion and the exasperation of control, generated by suspicion. The appearance of Ginger, glimpsed for the first time by de Niro through one of those audiovisual control screens, will contribute. Ginger the luxury prostitute, the creature par excellence of that universe of unbridled greed and glittering appearance, played by a Sharon Stone who threw herself headlong into the adventure. Ginger's hostile to the point of dislike is one of the gems of CASINÒ: and by far the most interesting and accomplished female character Scorsese has managed to create in his entire career. She is haughty and contradictory, corrupt and elusive: but at the same time vulnerable and fragile, so torn apart by the two rapes - Ace's paternalistic one, and Nicky's indifferent one - to which she is forced to resort.

The complexity of CASINÒ thus stems from the fact that it is equally public and private. A film about the couple, the trio, trust and betrayal; but also about the systematisation of crime, the mafia, the game, an entire era. In order to achieve all this in a space that is still limited (three hours of projection, which pass in an instant), Scorsese has superimposed two strands: the practically, documentary one of the description of a system, and the more traditional fiction one. And the first three quarters of an hour - of extraordinary expressive introspection - of the film serve precisely to introduce us into the mechanics of that system: how the chickens were plucked, how the Mafia 'skimmed' the immense profits, how the dehumanisation of the characters made possible the apparent immutable perfection of a criminal craft. It will only be with the invasion of the private sphere, with the appearance of Ginger, with the spread of de Niro's excessive power, of Pesci's violence, that CASINÒ will finally go against in countertrend. To lead some of the protagonists to self-destruction, to decree the eternal impunity of others: above all, to lead us to the end of an era. To the advent of a different and (as the American filmmaker closest to suffering and destruction declares, to that ambiguity that is redeemed as a source of poetry) not necessarily better America: a sort of generalised Disneyland, in which business respectability barely conceals the degeneration of the American Dream.

After all the restrained directorial artistry that had characterised THE AGE OF INNOCENCE, CASINÒ marks the inventive explosion of America's most unprejudiced creator of form. In it, all the means that the filmmaker has been granted by the director coexist, those that lead his cinema from the verism of MEAN STREETS to the abstraction of AFTER HOURS, in a continuous, fascinating game of mirrors: from the nocturnal and claustrophobic universe of the gambling houses we only leave for brief moments, towards the blinding and often deadly silence of the desert. As in a furious expressive inventory, an infinity of image cuts due to the use of long or very wide focal lengths, of sudden illuminations, of dazzling overexposures that translate so well the ephemerality of the places, of chromatic dominants, of a skilful use of editing that alternates slowdowns and accelerations, fixed images with fragmented ones, lead to a dizzying and intoxicating kaleidoscope. An unprecedented use of voice-over (with dual commentary by the two supporting actors) takes care of reordering this universe of information and sensations; and again a refined use of the soundtrack, a refined, allusive choice of period music.

A sometimes portentous fragment of the use of a language, is CASINÒ also that mirror of America desired by the author? It is doubtful, and the first to do so is Scorsese himself: 'during the filming of CASINÒ anguish often took over from pleasure. The task was immense: not like in GOODFELLAS where I had everything in mind, where the script was precise down to the last detail. Here, by dint of pulling all the strings of the story, I had the impression of a juggler with five balls at once'.

And that's a bit of it: as if (due to lack of time, to the creator's presumption reaching that of his creatures?) the enormous mass of information, of suggestions, of emotions that Scorsese's creative overpotential put at the spectator's disposal struggled to order itself. To finally access that higher dimension to which Scorsese surely aspired: that of a story that was not just about Las Vegas supermen, but about Americans and all of us. An immense and multifaceted film, CASINÒ must, in short, be revisited and assimilated; for our undiminished pleasure.

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