Una bindoville ai margini di una città. O, meglio: una decina di catapecchie di latta o di cartone, ed il rumore che s'indovina nello sfondo, presenza latente di una civiltà motorizzata. Qualche resto di questa civiltà (pneumatici usati, rifiuti vari) in uno scenario che la regia renderà sempre più fantastico con il precedere dell'opera. Colori irreali, fosforescenti; ambiente volutamente artificiale, recitazione volontariamente teatrale. In ognuna di queste catapecchie Kurosawa ha posto dei casi umani, delle vicende che coinvolgono i resti miseri di una piccola borghesia decaduta. Dalla giovane età alla vecchiaia, in questo microcosmo allucinante, egli osserva questo campionario quasi completo della tipologia umana.
Il titolo del film è una onomatopea: il rumore di un tram, che un ragazzo subnormale ripete incessantemente, mimando la guida del veicolo. Senza sosta fa la spola fra due capolinea immaginari. Gli altri abitanti della bidonville (meno folli, o meno illuminati, di lui) si scansano al suo passaggio, i bambini lo deridono. E' l'inizio dell'opera, la chiave che ci introduce nel mondo dell'artista: il cordone ombelicale, l'unico, che lega quel mondo al nostro. Da quale parte stia la verità, la normalità, il futuro, è una questione che lo spettatore dovrà risolvere da solo.
Kurosawa evita trappola che un film del genere poteva tendergli, quella di un naturalismo poetico di zavattiniana memoria. Si muove sul filo di una sceneggiatura di straordinaria essenzialità: alternativamente, dell'osservazione di un gruppo di abitanti all'altro, penetriamo nella meccanica del comportamento umano. DODES KADEN è l'operazione di smontaggio di questa meccanica: con una chiarezza impeccabile, con un'analisi critica spietata.
Ma anche con una comprensione umana infinita. E forse solo un cineasta giapponese, con alle spalle una cultura ed una impalcatura psicologica come quella orientale, poteva darci un quadro della nostra umanità così angoscioso, così lucidamente denunciatore, ma anche così impregnato di una serenità e di una saggezza consolatrice.
Un film grave e lento. Ma mai stanco, o lugubre, perché illuminato a tratti da residui sprazzi di vita. Un film nel quale il linguaggio cinematografico si adegua alle idee con una logica tranquilla e perfetta. Senza un solo effetto, ma con una serie di intuizioni che continuamente servono il significato del discorso con coerenza inappuntabile, con una adeguatezza che, per la sua semplicità, sembra nascondersi. Ma che, in effetti, esiste: si pensi, per citare due soli esempi, alla costruzione formale, splendidamente rigorosa, simmetrica nel suo sviluppo, dell'episodio del mancato perdono alla moglie infedele. O la visione, folgorante, della nipote addormentata tra i fiori di carta, prima della violenza. Kurosawa, con impareggiabile lucidità ed umiltà, scruta l'uomo ed il suo comportamento. E, di riflesso, la società, il suo intervento demolitore, con la sovrapposizione delle strutture materiali e psicologiche.
Uno sguardo disperato su un mondo violentato, dal quale pochi riescono ad evadere per una strada che non sia quella dell'angoscia o della follia. Kurosawa tenta di darci un'ultima, improrogabile, via d'uscita.