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DJOMEH Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 settembre 2001
 
di Hassan Yektapanah, con Jalil Nazeari, Mahmoud Behraznia, Rachid Akbari (Iran - Tagikistan, 2000)
 
Di gran lunga il meglio in questi giorni è quanto firmato da un iraniano e certamente islamico (toh, ciapa su, Berlusconi), Hassan Yektapanah. Filmato un paio di anni fa (Camera d'Or a Cannes 2000), ai suoi deliziosi meriti intrinseci DJOMEH garantisce un'aggiunta formidabile: poiché descrive l'esistenza di due giovani vaccari fuggiti dall'Afghanistan per rifugiarsi in un villaggio perduto fra le montagne dell'Iran.

Il solito, esile, languido, ormai risaputo spaccato all'iraniana, mi direte. Nient'affatto: perché il cinema del dopo- Kiarostami (e lo dimostra il recentissimo IL VOTO E' SEGRETO di Payami, che vedrete venerdì sui nostri schermi) si dimostra capace d'inventarsi nuovi universi. Certo, DJOMEH si costruisce su quelle caratteristiche preziose che hanno ormai reso celebre quella scuola: la semplicità, l'umiltà di affidarsi alla forza trainante dell'aneddoto, anche a quello apparentemente insignificante, quando è vicino all'uomo, ai suoi tempi più quotidiani, le sue esigenze più intime. E l'intuizione espressiva che conduce ad inserire queste piccole storie in un paesaggio eterno, scolpito dal lavoro, dalle relazioni affettive e sociali di sempre.

Anche in un mondo sottomesso alle più dure, talvolta crudeli vicissitudini materiali, il diritto dell'uomo alla futilità dei sentimenti, alla consolazione delle cose dello spirito: elementare ma oggettiva come un documentario, la storia di DJOMEH risplende dell'energia di questa invocazione. Perché capace di articolarsi non solo su una geografia di spazi fra terre infinite, ma su tutta una serie di connotazioni, e reazioni all'intolleranza. Il garzone di stalla straniero che s'innamora della figlia, sepolta non solo sotto il chador, del merciaio del villaggio. Ma anche un'altra solitudine destinata ad illuminarsi: quella di Mahmoud, il padrone di Djameh, che accetta dapprima anche solo di ascoltarlo; poi, di fargli da intermediario in quella sorta di missione impossibile. E pure quella dei ragazzini del villaggio, dai trastulli crudeli dei quali già traspare il veleno sottile del razzismo. E, in una magnifica metafora, la lezione da trarre da tanta assurdità. Mentre si divertono al mercato con uno specchietto con il quale abbagliano i passanti, finiscono per accanire il loro raggio sugli occhi particolarmente indifferenti di un vecchio: prima di accorgersi che si tratta di quelli di un cieco.


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