"DICK TRACY è uno splendido prodotto, come sempre più spesso il cinema (che deve affrontare dei rischi d'investimento largamente superiori a quelli di altre espressioni artistiche) è in dovere di offrire. Le leggi del marketing devono aver accuratamente soppesato la domanda americana (dove il film ha infatti battuto i soliti record) più che quella europea: da noi l'incorruttibile investigatore che ha monopolizzato con la sua "comic strip" i giornali americani dal 1931 agli anni Cinquanta, è meno noto (o forse meno congeniale) di altri eroi del fumetto.Nato nel 1937, Warren Beatty proclamava da anni il proprio desiderio di portare sullo schermo il mito della sua adolescenza: e DICK TRACY ha tutte le caratteristiche del film che uno (che può) ha passato la vita intera a sognare di fare. Come dire che tutto, tutto quanto sia prevedibile almeno, sembra essere stato messo in quest' opera per trascrivere in cinema l'universo dello strip.
Se DICK TRACY ricorda, tanto per cominciare, l'atmosfera della commedia musicale è perché la semplificazione, la stilizzazione e l'irrealtà del fumetto trovano il loro più immediato equivalente filmico nel musical. Di conseguenza, se molti collaboratori del film sono gli stessi che già furono vicini all'attore nelle sue prove registiche de IL PARADISO PUÒ ATTENDERE e REDS, tutti provengono comunque dalla scuderia di Francis Coppola. Di quel cineasta, insomma, che meglio di qualsiasi altro ha saputo dipartirsi dal realismo degli anni Trenta (COTTON CLUB, IL PADRINO) per scivolare nell'irrealtà fantastica, assai vicina ai toni di quella commedia musicale ormai caduta in disuso ma pur sempre presente in qualche angolo della memoria dei miti, di ONE FROM THE HEART, PEGGY SUE, TUCKER.
Puntualmente quindi, (anche perché, come detto, nulla più è lasciato al caso in questo genere di operazioni) direttori della fotografia come Vittorio Storaro, decoratori come Richard Sylbert, costumisti come Milena Canonero hanno fatto loro il film. E DICK TRACY è diventato un esempio eloquente di trascrizione espressiva tra i due generi tipici della cultura americana del secolo: dall'artificio della striscia comica a quello, di più ardua trasgressione realistica, dello schermo cinematografico.
Così, nel film come nel fumetto, le mezzetinte ed i dettagli sono sempre esclusi. I colori sono primari, e definiscono psicologicamente i personaggi. Gli spazi sono schematizzati: le stanze praticamente vuote, le pareti come paraventi, gli ornamenti assenti. E gli oggetti, persino i personaggi, non hanno un nome proprio, ma una funzione. Così sull'insegna c'è scritto Magazzino, il neon indica Bar, l'etichetta sulla bottiglia Birra, il giornale Quotidiano. E l'orfanello adottato si chiama Kid, la fidanzata Trueheart (sincera), l'adescatrice Breathless (mozzafiato)...
Egualmente, i movimenti di macchina si adeguano: non ci sono carrellate e panoramiche nel film, ma praticamente soltanto piani fissi. A sottolineare, con la staticità della cinepresa, l'origine inquadrata della vignetta disegnata per il giornale. L'aria de tempi - gli effetti speciali, l'animazione - egualmente si adegua: e il lavoro sorprendente dei truccatori non serve soltanto a rendere irriconoscibile l'apparizione di gente come Al Pacino o Dustin Hoffman. Ma a schematizzare ulteriormente il campo: i Buoni da una parte, con le loro facce più o meno allegre di tutti i giorni. Ed i Cattivi, con le protuberanze ed i vocioni elettronici alla Elephant Man, dall'altra.
Sulla carta - è il caso di dirlo - Beatty traduce insomma brillantemente in cinema l'intraducibile: l'elementarità dei sentimenti e delle psicologie, lo spirito di un'epoca, la violenza irreale di un fumetto "duro". Il tutto, in una produzione Walt Disney, la quale certamente non si è tirata indietro nelle esigenze della marca: non a caso, in un film ambientato negli anni del gangsterismo, non appare l'ombra di un cadavere...
Rimaneva, si diceva sopra, l'imprevedibile: quanto di misterioso, e nemmeno tanto, si cela ancora all'interno dei personaggi. E dei loro autori.
Un unico mostro senza maschera in un film tutto teso a stravolgere la realtà, Dick Tracy- Beatty è l'elemento portante del film. Chester Gould, per sottolinearne la trascendenza nei confronti dell'universo degli umani che gli stava attorno, lo disegnava sempre e soltanto di profilo: Warren Beatty non ha che il proprio, di profilo, da offrire. Di cinquantenne e passa, dalla mitica reputazione di supermaschio hollywoodiano: preoccupato curiosamente, nei propri film, ad un processo di autocastrazione che già si era fatto notare nelle opere precedenti .
Così, il perbenismo un po' fuori moda del giustiziere tutto agli antipodi di un Humphrey Bogart, si muta nel film in una sorta di manichino asessuato: che se resiste alle fattezze un po' tanto sottolineate di una Madonna vanamente marylineggiante sono fatti suoi. Ma se s'incolla piagnucoloso ad una fidanzata d'inimmaginabile lagna (la Tess Trueheart che si poteva immaginare meglio) finisce per stravolgere il tutto.
Che, oppresso come si ritrova da quel po' po' di messa in scena, questo Dick fosse insomma un doppiopetto bello fuori ma un po' vuoto dentro, c'era venuto il dubbio: ma moralista, e un po' bigotto, sinceramente no."