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DUNE
(DUNE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 dicembre 1984
 
di David Lynch, con Kyle MacLachlan, Sean Young, Max von Sydow, José Ferrer, Silvana Mangano, Dean Stockwell (Stati Uniti, 1984)
 

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L'attesa per Dune era duplice. Da un lato il romanzo di Frank Herbert, pubblicato nel 1965 e seguito da altri tre volumi che totalizzano più di dieci milioni di esemplari venduti nel mondo. Un capolavoro nella letteratura di fantascienza, e qualcosa di più: la prima opera di fantascienza ad aprirsi all'immaginario offerto dall'ecologia. Perché il libro, come il film, si svolge su Arrakis, pianeta deserto e abitato da vermi giganti, ma produttore di un elemento indispensabile alla sopravvivenza dell'intera Galassia, la spezia. Un giovane Messia, dotato di poteri parapsicologici, giunge su Arrakis, ne diviene il Profeta per condurre i suoi abitanti ad una guerra santa, che modificherà l'intero aspetto fisico e spirituale del pianeta e di tutta la Galassia.

Una saga, quindi, diventata in breve oggetto di culto. come Il Signore degli Anelli di Tolkien, il mondo inventato da Herbert si organizza e dilata con una complessità intellettuale straordinaria; inventando una lingua, vagliando gli aspetti geopolitici, religiosi e morali che conducono agli avvenimenti inventati. Questo oggetto di culto, che Jodorowsky (La montagna sacra) dapprima e Ridley Scott (Blade Runner) in seguito tentarono inutilmente di portare sullo schermo finisce finalmente col sfociare in una illustrazione, grazie a Raffaella de Laurentis, di un regista giovane. E anch'egli diventato autore di due film preziosissimi e a loro volta cult~movies per gli appassionati: Eraserhead, piccolo ma sconvolgente bianco e nero su una vita a due con una specie di feto schizofrenico. E Elephant Man, ancora un film su un mostro vittoriano, osservato con una semplicità e una poesia indimenticabili.


Ma com'è avvenuto l'incontro fra questi avvenimenti, letterario e cinematografico, ognuno a modo loro straordinari? Non tanto, dice Lynch, per l'aspetto cinegenico del romanzo. Non soltanto per il lato ecologico, o per la verità dei personaggi che non sono confinati, come talvolta in quel genere, in un approssimazione fumettistica. E nemmeno per la possibilità di tradurre in immagini sogni e visioni, di manipolare il suono (quattro diverse lingue di quattro diversi pianeti). 0, più semplicemente per la soddisfazione di coordinare uno sforzo da 50 milioni di dollari con alcuni dei mostri sacri dell'effetto speciale, lo scenografo di 2001: Odissea nello spazio, Tony Master, o il celebre creatore di mostri, Carlo Rambaldi. Piuttosto, dice il regista, la possibilità di avvicinarsi agli aspetti metafisici del libro, a tutto ciò d'invisibile che ci gravita attorno.

Proprio questo aspetto metafisico, questa facoltà di filmare l'invisibile, l'angoscia mentale più che il terrore materiale, tutte cose evidenti nei film precedenti di Lynch ci facevano pensare che questa colossale guerra stellare sarebbe staia diversa da quelle di Lucas e di Spielberg. Questo è vero, na solo in parte. Perché se, effettivamente, Lynch sembra dedicare molto del suo tempo a filmare dei problemi metafisici, o perlomeno misticheggianti, molto meno metafisico del previsto risulta il suo modo di filmare. Che è quello che conta.

Tutto Elephant man era immerso, oltre che in uno spirito vittoriano splendidamente ritrovato, in un'inquietudine impalpabile che rimetteva in questione la realtà oggettiva, che apriva interrogativi e permetteva all'autore di riflettere con una generosità umana insolita m questo tipo di cinema. In Dune invece (anche se un film di questa mole va rivisto con calma) ci sembra che l'importanza dell'impresa abbia lasciato poco tempo a quella meditazione creativa che permette ad un regista di suggerire significati secondi. Certo, gli appassionati del genere ritroveranno un'estetica curata nei minimi dettagli, secondo le tendenze probabilmente aggiornatissirne dettate da riviste del tipo Metal Hurlant: una specie di compendio storico dei vari stili di decorazione, riassunti in un paio, d'ore di virtuosismo strabiliante. E poiché anche la parte degli effetti speciali e dell'animazione è affidata ai grandi specialisti, Dune appartiene di diritto ai migliori esempi di "space-opera".

Rimane un'insoddisfazione di fondo per non aver trovato qualcosa di nuovo. Se Dune non possiede, come previsto, l'humor preziosamente dissacrante delle produzioni Lucas-Spielberg, non sembra nemmeno sfruttare come nel Blade Runner di Scott la ricchezza dello sfondo. Si ha come l'impressione che, nei confronti dell'immenso materiale della saga fantascientifica, gli autori abbiano sofferto d'abbondanza: il ritmo è lento nella prima parte e poi progressivamente accelerato, personaggi e aneddoti finiscono col mulinare nella mente dello spettatore pur sempre portato a ricercare itinerari logici.

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The wait for Dune was twofold. On the one hand, Frank Herbert's novel, published in 1965 and followed by three other volumes that totalled more than ten million copies sold worldwide. A masterpiece in science fiction literature, and something more: the first science fiction work to open up to the imagery offered by ecology. Because the book, like the film, takes place on Arrakis, a desert planet inhabited by giant worms, but producer of an element indispensable to the survival of the entire Galaxy, spice. A young Messiah, endowed with parapsychological powers, arrives on Arrakis and becomes its Prophet to lead its inhabitants into a holy war that will change the entire physical and spiritual aspect of the planet and the entire Galaxy.

Like Tolkien's Lord of the Rings, the world invented by Herbert is organised and expanded with extraordinary intellectual complexity, inventing a language and examining the geopolitical, religious and moral aspects that lead to the invented events. This cult object, which Jodorowsky (The Holy Mountain) first and Ridley Scott (Blade Runner) later tried in vain to bring to the screen, finally ended up being illustrated, thanks to Raffaella de Laurentis, by a young director. And he too became the author of two invaluable films and in turn cult~movies for fans: Eraserhead, a small but shocking black and white film about a life in two with a kind of schizophrenic foetus. And Elephant Man, again a film about a Victorian monster, observed with unforgettable simplicity and poetry.

But how did these literary and cinematic events, each extraordinary in their own way, come together? Not so much, says Lynch, for the cinematic aspect of the novel. Not only for the ecological side, or for the truth of the characters who are not confined, as sometimes in that genre, to a comic approximation. Nor for the possibility of translating dreams and visions into images, of manipulating sound (four different languages from four different planets). Or, more simply for the satisfaction of coordinating a $50 million effort with some of the sacred monsters of special effects, the set designer of 2001: A Space Odyssey, Tony Master, or the famous monster creator, Carlo Rambaldi. Rather, says the director, the possibility of getting closer to the metaphysical aspects of the book, to all that is invisible that gravitates around us.

It is precisely this metaphysical aspect, this ability to film the invisible, the mental anguish rather than the material terror, all things evident in Lynch's previous films, that made us think that this colossal star wars would be different from those of Lucas and Spielberg. This is true, but only in part. For while Lynch does indeed seem to devote much of his time to filming metaphysical, or at least mystical, problems, his filming is much less metaphysical than expected. Which is what counts.

The whole of Elephant Man was immersed not only in a splendidly rediscovered Victorian spirit, but also in an impalpable restlessness that called objective reality into question, that opened up questions and allowed the author to reflect with a human generosity that is unusual in this type of cinema. In Dune, on the other hand (although a film of this size should be watched again at leisure), it seems to us that the importance of the undertaking has left little time for the creative meditation that allows a director to suggest second meanings. Of course, fans of the genre will find an aesthetic with attention to the smallest details, in accordance with the probably up-to-date trends dictated by magazines such as Metal Hurlant: a sort of historical compendium of the various styles of decoration, summed up in a couple of hours of amazing virtuosity. And since the special effects and animation are also entrusted to great specialists, Dune rightfully belongs to the best examples of "space opera".

There remains an underlying dissatisfaction at not having found something new. If Dune does not possess, as expected, the preciously desecrating humour of the Lucas-Spielberg productions, neither does it seem to exploit the richness of the background as in Scott's Blade Runner. One has the impression that, compared to the immense material of the science-fiction saga, the authors have suffered from abundance: the rhythm is slow in the first part and then progressively accelerated, characters and anecdotes end up swirling in the mind of the spectator who is always led to search for logical itineraries.

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