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DOWNTOWN 81 Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 maggio 2000
 
di Edo Bertoglio (Stati Uniti, 2000)
 
DOWNTOWN 81 è un film dalle molte sorprese. La più immediata: quella di scoprire un regista, fotografo, artista luganese nel clamore prestigioso della rassegna di Cannes. La più paradossale: quella di accorgersi che, nell'era dell'eccesso mediatico e del culto bulimico delle immagini, quelle girate quasi per gioco, ma con evidente aderenza ed intimità con uno dei grandi esponenti della pittura del dopoguerra, Jean-Michel Basquiat, abbiano arrischiato di perdersi per sempre in fondo al rituale cassetto. La più colta: quella che un film interrotto a metà come questo non può rappresentare un ritratto, né tanto meno una biografia compiuta di un individuo, oltretutto scomparso all'età di 28 anni. Ma, in compenso, un'immersione autentica in un momento storico, artistico e culturale come quello dell'underground americano, del graffitismo, della new wave alla fine degli anni Settanta. Un po', come giustamente faceva notare Edo Bertoglio nella conferenza stampa alla Quinzaine, come se si fossero filmati gli inizi del Dadaismo. La più cinematografica: quella che, come in tutto il cinema che si rispetti, è l'ambiente, lo sfondo, la New York di quel materiale un po' sbilanciato (le riprese musicali - splendide - dei Kid Creole, James White, Tuxedo Moon, The Plastic, arrischiano di avere il sopravvento su quelle di finzione, interpretate da un Basquiat bravo, oltre che notoriamente bello; e di sviarne il soggetto) a significare ed autentificare le storie ed i personaggi narrati. In una dialettica espressiva che è la sola capace di donare un carattere universale e duraturo alla provvisorietà, anche simpatica dell'aneddoto. E la più poetica, infine: quella che DOWNTOWN, documentario o finzione che sia, traduce in realtà un momento dai rinvii magici, metafisici. Perché registra, con la verità inoppugnabile della fotografia, l'istante segreto, la casualità misteriosa del mistero magico della creazione. Basquiat non aveva mai eseguito altro che graffiti sui muri e sugli oggetti, quando gli autori di DOWNTOWN gli chiesero d'interpretare per il film il ruolo di un artista al quale gli amici regalano una tela: perché questa sia dipinta, possa essere venduta e pagato l'affitto. Ora, sarebbe probabilmente esagerato affermare che, senza il film di Bertoglio ed i suoi amici Basquiat non avrebbe mai iniziato a dipingere quei quadri che oggi sono considerati fra i più significativi (inutile dirlo, anche nelle valutazioni) della pittura degli ultimi 20 anni. Ma rimane il fatto che il film, per uno di quei misteri della creazione artistica, sembra esplodere proprio nel nucleo di un processo di germinazione, nell'attimo magico di una genesi creativa. Un film di finzione (per sua natura falso) che, per la notorietà postuma del suo protagonista si fa soprattutto documento (e quindi vero). E quindi una finzione che precede, provoca ed in qualche modo supera la realtà. È l'aspetto più poetico, quasi inquietante, di un film che non vuol essere soltanto giubilatorio

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