Chiamarsi Wajda, esser stato l'autore di CENERE E DIAMANTI o de L'UOMO DI MARMO, girare un film nel ghetto di Varsavia, su un celebre medico e pedagogo, deportato a Treblinka con i suoi 200 orfanelli dopo aver rappresentato una figura mitica in tutti gli anni Trenta, girare in bianco e nero come nei film d'epoca, con la fotografia di Robby Muller (il collaboratore di Wenders), con vari inserti documentari d'epoca che aggiungono - qualora ne fosse il caso - ulteriore drammaticità: con l'aria che tira, basta e avanza.
KORCZAK, dal nome del medico e filantropo, ha tutto dalla sua,e non può tradire le attese che si aspetta una testimonianza accorata, al tempo stesso stilisticamente compiuta, su quegli avvenimenti d'incredibile efferatezza, che l'attualità ripropone alla nostra altrettanto incredula emozione.
Eppure KORCZAK, nella commovente descrizione di una progressiva degradazione materiale e morale com'era quella di quegli anni a Varsavia, lascia - quasi altrettanto incredibilmente - una certa quale insoddisfazione.
Wajda ha, forse giustamente, incentrato il suo film sul protagonista: ma ne ha fatto una specie di santo, di essere umile e sublime, ma quasi aristocratico nella propria possibilità di accesso alle vette della spiritualità e di una conoscenza praticamente mistica. I buono sono tutti da una parte, e cosi i cattivi: ed i polacchi, dei quali si conosce il ruolo - unitamente a quello della Chiesa - nella faccenda, stranamente assenti.
Lo stile, come sempre, segue. O precede: qualcuno - esagerando - l'ha definito revisionista. Ma è certo che scegliendo un'estetica anni cinquanta, di prekruscioviana per non dir peggio memoria, un finale al rallentatore e in sovraesposizione, coi bambini che escono dai tragici vagoni per scomparire nella campagna in fiore, Wajda ha percorso quel famoso itinerario lastricato di buone quanto sdrucciolevoli intenzioni.