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GLI SPIETATI
(UNFORGIVEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 settembre 1992
 
(Stati Uniti, 1992)
 
"Se la Leggenda è più bella della Storia, allora mostriamo la leggenda": era John Ford a dirlo, uno che di western se ne intendeva.

Proprio 30 anni dopo L'UOMO CHE UCCISE LIBERTY VALANCE Clint Eastwood fa tutto il contrario: ma GLI SPIETATI è veramente un western, l'America è ancora quella, e noi, e l'uso della violenza nel nostro mondo, ancora i medesimi? È dalla somma di tutti questi - ed altri - interrogativi che nasce il fascino, sommesso e folgorante al tempo stesso, di questo film. I capolavori nascono (anche) quando l'opera tende a sovrapporsi, ed a fondersi sull'artista; ed i significati espandersi dal dramma dell'individuo, o del contesto del racconto, a quello più universale.

UNFORGIVEN, il titolo inglese che significa "imperdonato" ma anche "imperdonabile", riassume perfettamente il significato del film: il vecchio killer a riposo, William Munny (Clint Eastwood), che viene sollecitato dalla prostituta sfregiata da un cowboy del villaggio a vendicare il malfatto, è imperdonabile dalla memoria popolare per i crimini commessi in passato. Ma è imperdonato, nei confronti di sé stesso, per l'uso della violenza che la propria coscienza gli rimprovera.

Gli si contrappone lo sceriffo Little Bill (Gene Hackman), che con la violenza intrattiene un altro tipo di rapporto: dapprima se ne serve (tollerando quella dei cowboy sulle prostitute, donne relegate al rango inferiore), poi ne fa un uso perverso, compiaciuto e scriteriato. Le conseguenze, attorno a questo personaggio-chiave del film, sono allora esemplari: tutti - cattivi ma anche buoni - sono attirati, e quindi distrutti, dal vortice inarrestabile di quella violenza con la quale così a lungo si è voluto giocare.

Non è la prima volta che il western, e l'America, ridimensiona i propri miti (si pensi ad Altman, Penn, Peckinpah). Ma GLI SPIETATI (una volta ancora bisognerebbe ricorrere al termine di postmoderno?) non si limita a distruggere il giocattolo: a far si che l'eroe sia stanco ed ormai incapace a sparare ad una lattina o persino a salire sul suo cavallo. Non si limita a rovesciare tutti gli archetipi, in modo che i buoni non siano mai veramente buoni, i cattivi necessariamente i più perversi, e le situazioni quelle che lo spettatore si aspetta dagli schemi tradizionali. Con le donne che sono certo vittime innocenti, ma scatenano un dramma che poi sono impotenti a ridimensionare; o i rappresentanti della legge sono più pericolosi dei malfattori, ma sono anche degli sprovvisti giovanotti che assistono esterrefatti ai primi segni di conflitto; ed i cowboy si abbandonano a gesti riprovevoli, ma poi sono dei poveracci che piangono e si disperano, per poi farsi impallinare mentre sono seduti sul cesso; in quanto ai killer sono miopi e cialtroni, malati e tremendamente vulnerabili.

Clint Eastwood compie qualche passo in più: distrugge, tanto per iniziare, sé stesso. Umilia in un calvario nel fango, fra i porci, nei dubbi, nella paura, la malattia, la debolezza, le cicatrici, quella sua celebre immagine: costruita su tanti personaggi incontenibili, su tante pellicole condotte da un'energia cinetica che le rendeva tremendamente spettacolari ("è vero, mi sono servito della violenza per divertire; ma questa ha raggiunto dei tali estremi da rendere urgente una riflessione sulla sua moralità, sulla sua vera natura e le sue vere ripercussioni"), sulla simbologia che aveva fatto grande i film di Sergio Leone e Don Siegel ai quali UNFORGIVEN è dedicato.

Di una sceneggiatura magnificamente densa di situazioni del genere, all'interno della quale i personaggi evolvono con esaltante fecondità, l'autore elenca, celebra (senza mai ridicolizzare, senza mai schematizzare) e dissacra al tempo stesso quei temi, quei sentimenti, quelle illusioni che hanno sorretto tante generazioni: la giustizia, la vendetta, il bene, il male e la punizione di quest'ultimo, il coraggio, la fede, la lucidità. E la redenzione in un paesaggio, in un ambiente incontaminato e puro: qui, nella pioggia, nella notte, nel migliore dei casi nella gloriosa melanconia del paesaggio autunnale, degli eroi sfiduciati, incapaci di ogni strategia pratica e ancor meno morale, imbranati e votati alla sconfitta, ansiosi soprattutto di fuggire l'inconfortevole umidità dei bivacchi, non trovano nemmeno rifugio in quello splendore biblico del paesaggio che confortava dalle peggiori vicissitudini nei western di Ford, Hawks o Anthony Mann.

Non si tratta ormai più delle splendide utopie, delle agognate Nuove Frontiere che giustificavano ogni prevaricazione: ma degli scotti da pagare, dei limiti, oltre i quali queste Frontiere non valgano più una candela; e conducono ai territori delle rivolte di Los Angeles, coi poliziotti (così simili al bravissimo Gene Hackman del film) che pestano i neri per terra, davanti agli occhi delle cineprese.

Confrontato alla follia degli uomini, alla degenerazione dei valori, all'uso sistematico della deformazione (nella rappresentazione, nell'informazione) in questo film crepuscolare ed esaltante, grave e disinibito, Clint Eastwood ci mostra com'erano le cose "prima" del western: quando quella costruzione che possiamo definire ideale e sognante, come illusoria e perversa, non aveva ancora preso avvio. Com'erano le cose quando ancora non era stato inventata l'esaltante, sconsiderata invulnerabilità dell'eroe da fumetto, poliziesco o western.

Quando il cinema non aveva ancora meditato sulla grande lezione dell'Eastwood di UNFORGIVEN: quella sull'antica, ormai dimenticata fatica dell'atto di uccidere."


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