1971, il terzo film di Altman, dopo MASH e BREWSTER MC.CLOUD. Una rilettura di questo western, che del western ha solo le parvenze, permette di dire che quest'opera del regista, così come probabilmente le seguenti IMAGES e THE LONG GOODBYE, appartiene ad uno dei momenti fondamentali del cinema americano degli anni settanta.L'importanza e la bellezza di I COMPARI non provengono soltanto dalla sua fattura, che è splendida: il regista di NASHVILLE ci ha ormai abituato alla prodezza espressiva, che probabilmente nessuno negli Stati Uniti possiede in egual misura e, soprattutto, in una misura così estesa di gamme. Il film che è ambientato nei primissimi anni del secolo, nelle zone minerarie sui confini con il Canada, non è, lo abbiamo detto, un western. È un film su dei pionieri, sulla nascita di una civilizzazione: Altman ci mostra il villaggio che si forma a poco a poco. Asse dopo asse, le baracche, la chiesa, il saloon, il bordello. E gli individui, dal sottoproletariato composto dai cinesi (che Altman ci mostra sempre come massa, senza mai identificare, esemplificare un solo individuo, per sottolinearne l'aspetto di segregazione sociale) fino a quelli che contano. Poi, l'arrivo (come nella tradizione dei western) del mondo della speculazione, della violenza, della sopraffazione.
Il modello è quello del western, ma solo lo schema: dal primo viso che Altman inquadra, comprendiamo che non esiste più l'eroe, il mito. Ma solo l'individuo, il povero cristo come doveva essere a quei tempi. Lo sguardo del regista è come quello di un documentarista, le facce, i gesti, le reazioni degli attori sono vere (salvo i ruoli principali, Altman ha lasciato agire tutti i personaggi di sfondo con quasi totale libertà), sono scrutate con un desiderio di autenticità che il cinema americano raramente ha posseduto.
L'ambiente esterno è depresso, come doveva esserlo in tempo di disperazione, le risse prive di spettacolo, le donne del bordello a dir poco scarsamente attraenti.
Il sole non compare praticamente mai nel film, se non per sottolineare i brevissimi momenti demitizzanti il genere. Gli interni, girati tutti alla luce naturale delle candele, delle lampade a petrolio sono, oltre che di una dolcezza espressiva rara (fotografo è il celebre Vilmos Zsigsmond, che firmerà anche altri capolavori di Altman) perfetti per esprimere l'intimità, la gracilità, il desiderio di calore, il tentativo di emancipazione dei pionieri nei confronti delle forze che ormai li minacciano. Ma quello che potrebbe essere soltanto un preziosismo fine a sé stesso si trasforma, nell'opera di Altman in un discorso fra i più importanti e coerenti del cinema contemporaneo.
Le sue intenzioni sono chiare: nel racconto succede quello che i film del genere ci hanno sempre raccontato (così come in IMAGES i film psicologici, in GOODBYE i polizieschi, in NASHVILLE la riflessione sociale), ma tutto è ricondotto con i piedi su terra. L'eroe non spara, non muore, non ama secondo il modo, ormai falso, ingannevole che il cinema ci ha sempre mostrato. Altman spoglia il cinema dallo spettacolo: ci mostra continuamente dove c'è l'inganno, l'ambiguità, la speculazione. Non solo nel meccanismo della creazione cinematografica. Ma, di riflesso, nel modo di pensare e di agire della società che ha creato questo meccanismo.
Questo tentativo continuo di denunciare gli schemi, partendo anche magistralmente da un lavoro di linguaggio, potrebbe far cadere il cinema di Altman in una astrazione, in un idealismo pericoloso. Ma, perlomeno finora, la sua opera sembra uscire indenne da questo pericolo: perché la straordinaria abilità del regista nel condurre anche un preciso discorso politico e sociale fanno affondare appieno le radici delle sue opere in una realtà che è ancora la nostra.