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Dal nazismo allo schiavismo, da BASTARDI SENZA GLORIA a DJANGO UNCHAINED, Quentin Tarantino rifà quello che solo riesce a lui: non lasciare che le proprie storie, quelle fatte a modo suo, a seconda delle proprie passioni e dei suoi geniali capricci, si sottomettano alla Storia con la maiuscola. Un atto di fede, quasi spropositato, nel cinema, nel suo potenziale d'evasione nel meraviglioso. Nel primo, stravolgeva il comodo e cosi spesso pagante concetto di realmente accaduto, facendo scomparire Hitler e i suoi compari fra le pellicole in fiamme di una sala di cinema parigina, tra mitragliate e mazzate da baseball da parte di una banda di marine ebrei dai metodi teppisti. Ora, di quella tragicomica, paradossale rivincita sul Male nazista recupera il personaggio più indimenticabile, il glaciale e mellifluo cacciatore di ebrei interpretato dall'immenso Christoph Waltz. Per farne un altro straordinario perno narrativo, ancora germanico, ancora enigmatico, ma provvisto di una moralità (certo, tutta tarantiniana
) opposta.
E' il frutto di una fantasia che può infischiarsene dell'ortodossia, ancora un cacciatore, ma stavolta di taglie su assassini: schiavisti di preferenza, visto che siamo in Louisiana, due anni prima che si sollevino i tumulti storici della Guerra di Secessione, gli stessi descritti dallo Spielberg di LINCOLN ma in un modo che non si potrebbe più antitetico.
All'ex dentista dottor King Schultz, sbrigativo liquidatore di sadici degenerati dalla forbita, colta e tagliente cadenza teutonica (se c'è un film da godere in versione originale, poiché è la parola a trascinare le sue immagini, questo è proprio DJANGO UNCHAINED) occorre però che Tarantino inventi qualcosa d'ulteriormente impensabile: un nero (Jamie Foxx, imperiale) che si decida ad uccidere un bianco. Uno schiavo da liberare perché si faccia cowboy, un nigger da mutare in uno dei miti più saldi della cultura americana. Per fargli poi, quasi inconsciamente, da maestro spirituale, da fratello affettivo: all'interno di uno dei tipici itinerari vendicativi che contraddistinguono le storie di Tarantino, ma che sotto la tragicomica, disincantata truculenza della passione pulp acquista accenti inediti, nell'indignazione e nella foga politica, nella poesia e nella commozione.
DJANGO UNCHAINED non possiede la stessa scorrevole continuità di JACKIE BROWN, PULP FICTION o KILL BILL. Ma a percorrere il film senza tregua è quella sua sorta di maturità e di rabbia civile, sotto l'omaggio postmoderno al western spaghetti, alla rivisitazione dei mitici eccessi di violenza introdotti (già in quel 1966
) dal Sergio Corbucci del DJANGO originale con Franco Nero, caro da sempre all'ispirazione tarantiniana. E l'infinità di citazioni western sul panorama immenso di montagne innevate, nell'eco non solo del celebre tema di Luis Bacalov cantato da Rocky Roberts, ma dell'incredibile melting pot musicale dove Ennio Morricone si coniuga con il blues, Riz Ortolani con il Requiem di Verdi, il jazz di Pat Metheny con James Brown o Johnny Cash.
Affascinanti intuizioni espressive occupano la parte centrale, prima fra tutte lo sbarco nella sontuosa piantagione del negriero Big Daddy, sullo sfondo di energumeni armati di fruste e cortigiane di colore avvolte in abiti lunghi dai pastelli sgargianti, di un Jamie Foxx a cavallo in completo di seta turchina con jabot da Piccolo Lord. E siparietti che non sarebbero dispiaciuti a Woody Allen, con gli incappucciati alla Ku Klux Klan che si lamentano perché la moglie di uno di loro ha sforbiciato i copricapo in modo maldestro, impedendo loro la vista.
Situazioni e personaggi a dir poco insoliti conducono all'inevitabile balletto finale, forse leggermene sfasato, con le sue diverse ripartenze, rispetto alla splendida costruzione sulla quale appoggia. Ma, prima ancora, scomodando addirittura i Nibelunghi, il dottor Schultz dovrà spiegare all'ex-schiavo che per salvare la moglie che parla tedesco e si chiama Brunilde, occorrerà attraversare, proprio come Sigfrido, un mare di fiamme. Sempre e soltanto nella perfetta padronanza del Verbo e della Commedia: solo cosi si eviterà la tragedia, sposando la doppiezza dei bianchi, eludendo l'orrore provocato dalle due ultime trovate del casting, un inedito cattivo Leonardo Di Caprio, organizzatore sadico di combattimenti fra schiavi. Più lozio Tom più agghiacciante che si ricordi, il sornione, diabolico maggiordomo nero interpretato da Samuel L. Jackson. Il film culmina a quel momento nei toni di un'acutezza dell'osservazione inedita per il cineasta, in uno straordinario suspense quasi surreale, e una commozione che non gli conoscevamo: DJANGO UNCHAINED non è il film più perfetto di Quentin Tarantino, ma il suo più maturo e sincero.
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From Nazism to slavery, from BASTARDS WITHOUT GLORY to DJANGO UNCHAINED, Quentin Tarantino does what only he can do: not let his own stories, those made in his own way, according to his passions and his brilliant whims, submit to History with a capital letter. An almost disproportionate act of faith in cinema, in its potential for escapism in the marvellous. In the first, it twisted the convenient and so often paid-for concept of what really happened, making Hitler and his cronies disappear amidst the burning films of a Parisian cinema hall, amidst machine gunfire and baseball bats from a gang of thuggish Jewish Marines. Now, from that tragicomic, paradoxical revenge on Nazi evil, he recovers the most unforgettable character, the glacial and mellifluous Jew hunter played by the immense Christoph Waltz. To make him another extraordinary narrative pivot, still Germanic, still enigmatic, but endowed with an opposite morality (of course, all Tarantino).
He is the fruit of a fantasy that can disregard orthodoxy, still a hunter, but this time a bounty hunter on murderers: slavers by preference, given that we are in Louisiana, two years before the historical turmoil of the War of Secession, the same described by Spielberg in LINCOLN but in a way that could not be more antithetical.
The ex-dentist Dr. King Schultz, a hasty liquidator of degenerate sadists with a polished, cultured and sharp Teutonic cadence (if there is a film to be enjoyed in its original version, since it is the word that drags its images along, it is precisely DJANGO UNCHAINED) needs Tarantino to invent something further unthinkable: a black man (Jamie Foxx, imperial) who decides to kill a white man. A slave to be freed so that he can become a cowboy, a nigger to be transformed into one of the most solid myths of American culture. And then, almost unconsciously, he becomes his spiritual master, his emotional brother: within one of the typical vengeful itineraries that distinguish Tarantino's stories, but which under the tragicomic, disenchanted truculence of pulp passion acquires new accents, in indignation and political fury, in poetry and emotion.
DJANGO UNCHAINED does not have the same smooth continuity as JACKIE BROWN, PULP FICTION or KILL BILL. But what runs through the film relentlessly is its sort of maturity and civil rage, under the postmodern homage to the spaghetti western, to the revisiting of the mythical excesses of violence introduced (back in 1966) by Sergio Corbucci in the original DJANGO with Franco Nero, always dear to Tarantino's inspiration. And the infinity of western quotations on the immense panorama of snowy mountains, echoing not only Luis Bacalov's famous theme sung by Rocky Roberts, but also the incredible musical melting pot where Ennio Morricone combines with the blues, Riz Ortolani with Verdi's Requiem, Pat Metheny's jazz with James Brown or Johnny Cash.
Fascinating expressive intuitions occupy the central part, first of all the landing in the sumptuous plantation of the slaver Big Daddy, against the background of energetic men armed with whips and black courtesans wrapped in long dresses in bright pastels, of a Jamie Foxx on horseback in a turquoise silk suit with a Piccolo Lord jabot. And sketches that Woody Allen would not have minded, with the hooded Ku Klux Klan men complaining that one of their wives has awkwardly cut off their headgear, preventing them from seeing.
Unusual situations and characters, to say the least, lead to the inevitable final ballet, perhaps slightly out of sync with the splendid construction on which it rests. But even before that, even disturbing the Nibelungen, Doctor Schultz will have to explain to the ex-slave that to save his wife, who speaks German and is called Brunhilde, it will be necessary to cross, just like Siegfried, a sea of flames. Only in perfect mastery of the Word and Comedy will tragedy be avoided, by espousing white duplicity and avoiding the horror caused by the two latest casting gimmicks, an unprecedented villain Leonardo Di Caprio, a sadistic organiser of slave fights. More chilling Lozio Tom in memory, the sly, diabolical black butler played by Samuel L. Jackson. The film culminates at that moment in tones of observational acuity unprecedented for the filmmaker, in an extraordinary suspense that is almost surreal, and an emotion that is unfamiliar to him: DJANGO UNCHAINED is not Quentin Tarantino's most perfect film, but his most mature and sincere.
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