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AMOUR Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 novembre 2012
 
di Michael Haneke, con Emmanuelle Riva, Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, William Shimell (Austria - Francia, 2012)
 
Nove addetti al cinema su dieci, interrogati sul film di quest'anno che si è impresso indelebilmente nelle loro memorie vi dirannio AMOUR, seconda, ineluttabile Palma d'Oro a Cannes, dopo IL NASTRO BIANCO nel 2009.

La cosa non sorprende, per almeno due ragioni: la prima è che l'ultimo film del cineasta austriaco affermatosi fra i più imperiosi al mondo è costruito con una lucidità indubbiamente magistrale. La seconda è che il tema trattato, la fine di una vita, di un amore in una coppia unita da anni, è soggetto forse schivato, ma certamente universale.

Per raccontare la progressiva separazione che deve affrontare la coppia di musicisti ottantenni dal momento in cui lei viene colpita da un ictus (e il film vivrà dello sguardo doloroso posto sulla generosità impressionante delle interpretazioni di Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva), Michael Haneke (cineasta dell'autocontrollo, distruttivo, anche crudele, attento alla degradazione umana o sociale più che all'emozione, per non dire al sentimentalismo) ha seguito qui un processo espressivo basato su una disciplina, un'ispirazione, un pudore esemplari, infine anche commoventi.

AMOUR inizia mostrandoci i due protagonisti mentre si accomodano fra altri spettatori, visti dal palcoscenico, in una platea: sarà la loro ultima apparizione nel teatro pubblico della vita. Rientreranno definitivamente, dopo l'autobus che li riconduce a casa, in un contenitore perfettamente circoscritto dall'arte compositiva del regista: l'appartamento tranquillamente borghese che ruota attorno al pianoforte, un'infinità di oggetti, di dettagli che ne fanno un'altra sorta di teatro, quello di una vita che inizia a rinchiudersi sul proprio intimo. Sarà allora l'attenzione estrema dello sguardo di Haneke su quei dettagli minimi, sulla rigorosa geometria dello spazio (ricreato in studio), i tempi dettati da una porta che si rinchiude, lo svanire di una sonata di Schubert, le dominanti cromatiche smorzate, la serena oggettività delle inquadrature fisse, l'evasione offerta dai dipinti di paesaggi romantici appesi alle pareti a condurci con la maggior serenità possibile sul cammino spirituale che si accompagna a quello progressivo del degrado fisico.

Al rischio dell'incubo claustrofobico al quale potrebbe condurre il pur delicato rigore espressivo del regista si contrappone allora la trattenuta, ma meravigliosa resa degli attori: quasi una fuga poetica per sollevare il film da gran parte dell'indubbio impegno emotivo richiesto allo spettatore. Questo rimane comunque inevitabile, e pure indispensabile. Il cinema di Haneke rimane infatti quello di un manipolatore di genio (anche se non sempre di diletto, alla Hitchcock, per intenderci): che tende non tanto a consolare lo spettatore, ma a condurlo per cammini a lui cari e congeniali. Per alcuni sarà fonte di estrema ammirazione; per altri di costrizione.


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