LA VITA DI ADELE (LA VIE D'ADELE) |
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di Abdellatif Kechiche, con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Jérémie Laheurte, Aurélien Recoing
(Francia, 2013)
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Dimenticate per un istante la Palma d'Oro che i giurati di Cannes, solitamente attenti al compromesso hanno osato assegnare all'incandescenza privata, fisica e, come non bastasse omosessuale di LA VITA DI ADELE. Cancellate l'eco degli entusiasmi unanimi di allora. Ma, egualmente, le polemiche sollevate in seguito da chi (come spesso accade) non aveva visto il film: perversità intellettuale di un aguzzino nel condurre agli estremi la resa delle proprie attrici, lunghezza finalizzata dei tempi, rappresentazione compiacente della sessualità più cruda. Abbandonatevi al film: e vivrete istanti di verità e di emozione ormai persi dal cinema formattato attuale. L'osservazione e la comunione nell'istante presente, lo scavo nell'immediato; non molto dissimile da quello che è stato dei Cassavetes, Pialat, Van Sant, ma che ora il regista parigino di origine tunisina autore di L'ESQUIVE e di COUS COUS (LA GRAINE ET LE MULET) è il solo al mondo a inseguire con tanta prodigiosa intensità. Abdellatif Kechiche non costruisce progressioni aneddotiche, tanto meno analisi o spiegazioni psicologiche. Ma dei processi d'introspezione capillare che si fanno mentali, premiati dalla pazienza (qualcuno dirà maniacale) in attesa del momento sublime: l'incontro fra lo sguardo della cinepresa e la disponibilità di attori al culmine dell'abbandono. Lontana da ogni sensazionalismo, la vicenda del film è comune fino alla banalità. Adele, la sedicenne così normale da obbligare immediatamente l'affettuosa identificazione dello spettatore incontra, poi tenta di definire, infine si acquieta (forse) nella propria identità. Dalla più prepotente, quella sessuale; ma non solo. Il desiderio, la passione, l'amore, contrastati come sempre nel suo cinema dai dilemmi sociali e culturali, Kechiche li legge sui visi, sulla serie infinitamente ripresa e sempre diversa dei primi piani: di Adele, dei suoi primi ragazzi, di Emma, la ragazza dai capelli blu e soprattutto dall'omosessualità ormai assestata, incrociata per strada. Primi piani che meravigliosamente ci conducono verso l'intimo dei personaggi, la bocca innocente e golosa della ragazza che dorme, gli incisivi che sporgono dalle labbra nel sonno, i pasti, il piacere sgranato, il desiderio quasi infantile per un piatto di spaghetti come per altri frutti proibiti che verranno. Quel viaggio verso una spossata conquista della propria identità Kechiche lo costruisce sempre sui corpi, su una fisicità esplorata metodicamente; succedeva nell'interminabile danza del ventre della protagonista che concludeva l'imperdibile LA GRAINE ET LE MULET. Si rinnova nel riverbero incredibilmente ricettivo del viso di Adèle Exarchopoulos, la miracolosa esordiente che non a caso ritroviamo nel titolo, che si concede totalmente al film come allo spettatore, in meravigliosa mutazione espressiva, in evidente crescente complicità con colui e coloro che la scrutano. Egualmente laureata da Cannes, Léa Seydoux, è perfetta; già profilata da una professionalità che la confermano attrice più stimolante della nuova generazione francese. Nell'assecondare l'imbronciata incertezza, il radioso appagamento, la fragilizzata conoscenza di Adele le due giovani permettono al cinema invasivo di Kechiche di farsi di una commozione altrimenti impossibile. Di una naturalezza, di una verità rara anche quando esce all'aperto, libero dalla costrizione degli huis clos (il primo incontro, la manifestazione politica, la scuola, i compagni, i bambini), di una violenza interiorizzata emozionante (la fatica delle lacrime trattenute nella scena della rottura), il film è lungo, a tratti ripetitivo, i sei minuti di sesso esasperati e ai confini del sostenibile per qualche sensibilità? Sono i tempi e le condizioni necessarie per conquistarsi l'amore, la partecipazione totale da parte dello spettatore ; quella che permette all'esigente ma anche tenera generosità di questo cinema di fare cadere le maschere.
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