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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 giugno 2014
 
di Pawel Pawlikowski, con Adam Szyszkowski, Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska (Polonia, 2013)
 

Cinquantaseienne polacco trapiantato in Gran Bretagna dall'eta' di 14 anni, autore di alcuni documentari e due lungometraggi visti da nessuno (MY SUMMER OF LOVE e LA FEMME DU Vème) Pawel Pawlikowski è ritornato a Varsavia per girare questo IDA. Risultato: l'oggetto di meraviglia dell'anno, un gioiello di brutale bellezza, di certo il suo capolavoro. Lo sfondo è quello della Polonia degli anni Sessanta che è stata incisa nella memoria dal cinema, quella dei Skolimovski, Wajda, Polanski: il grigio sporcato dalla neve di stagioni incerte, le strade di campagna che s'incrociano prima di perdersi all'infinito, quattro mura con i cavoli piantati nell'orto che affiorano dalla nebbia. Un paesaggio mentale, uno spazio eternamente occupato: più che da Chopin, da guerre, cattolicesimo e antisemitismo, nazismo e Olocausto, stalinismo e Armata Rossa, comunismo, Solidarnosch. Anna (Agata Trzebuchowska, testimone discreta e indimenticabile) ha vent'anni, è cresciuta protetta da tutte quelle tensioni, in un convento, è nata da genitori che non ha mai conosciuto. E' in procinto di prendere gli ordini, ma la madre superiora impone alla novizia di uscire dapprima, non fosse che per conoscere una zia che mai prima di allora aveva voluto incontrarla: Wanda (sconvolgente profondità di un'attrice straordinaria, Agata Kulesza), la procuratrice comunista, lucida, disincantata e nemmeno più rabbiosa, suicidaria in un deriva fatta di sesso frettoloso e ovviamente vodka. L'iniziazione della novizia Anna alla vita civile partirà dalla conoscenza di essere ebrea, di chiamarsi in effetti Ida Lebenstein; e di avviarsi allora in una road movie della memoria, alla ricerca della fossa nella foresta nella quale i nazisti si sbarazzarono di quanto restava dei genitori. Due donne, lontane in modo diverso da ogni sorta di dogmatismo. Accanto all'impeto libertario con il quale la zia soffoca la propria disperazione, lo sguardo silenzioso di Ida, lucido e perspicace nella fede fragile ben oltre il concetto di tentazione, finirà per incrociare anche quello disinvolto e seducente di un giovane sassofonista. Così che, in un equilibrio instabile tutto polacco tra cortina di ferro e jazz d'avanguardia, e prima di un finale deviante e per certi versi sorprendente ma ancora tutto scavato, l'eco del film farà suoi anche i suoni fascinosi di Thelonius Monk, o il sublime "Naima" di John Coltrane. E' l'apice di un processo di formazione, tardivo, sociale, psicologico, sessuale al termine del quale la giovane donna avrà fatto il giro delle varie ipotesi esistenziali. Come dirà al ragazzo: "ci amiamo, facciamo dei figli, stiamo insieme a lungo. E poi? " A modo suo, Pawlikowski fa suo il messaggio di Ida: " Desideravo resuscitare il paese della mia infanzia, le influenze che ha subito. Così, parte del mio tempo l'ho dedicato a distillarle, nel tentativo di estrarne un'unica essenza, la semplicità." Ed è quella ad esplodere a prima vista: straordinaria energia dei silenzi, degli spazi vuoti che esaltano quanto conta fissare nella mente, in uno bianco e nero favoloso, nel formato delle vecchie foto che da solo esalta il ricordo. La prepotente vibrazione emotiva di ognuna delle scene, spesso fisse, del film nasce da un'arte raffinata e sapiente della composizione: ogni inquadratura rappresenta una commossa geografia dell'animo che si significa a sé. Con il protagonista della situazione in primo piano, ma di lato; e i restanti due terzi dell'inquadratura destinati a focalizzare lo sfondo con i suoi rinvii materiali e psicologici sui personaggi. La qualità della fotografia è magistrale, ma mai per un esercizio di stile gratuito, una ricerca del bello per il bello. Per una condivisione emotiva con l'emozione dell'istante presente, che rende Ida e le sue memorie impossibili da cancellare dalle nostre.


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