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Figura continua di riferimento del cinema africano ma avaro di lungometraggi dal 2006 della splendida originalità di BAMAKO, ora Abderrahmane Sissako letteralmente insorge con TIMBUKTU da quello che fu un centro di civiltà straordinaria, di riflessione filosofica e ricerca scientifica; ricostruito oggi in un piccolo villaggio sperduto ai confini fra la Mauritania e il Mali. Un film corale, dai toni radicalmente contrastati, insolito e eclettico per un cinema come quello della tradizione africana abituata al racconto lineare della favola. Con la semplicità di un procedimento splendido e feroce; per la forza poetica di certe sue immagini sublimi, quasi surreali, nel loro lirismo congiunto a quello dei suoni e delle musiche; per lo sdegno di una denuncia morale e politica priva di ogni ambiguità. E, ancora più à sorpresa, per l'ironia, l'umorismo tragico che il regista alterna alla violenza. Le successive spoliazioni colonialiste, le lotte intestine indotte dalla miseria, e ora l'estremismo folle delle milizie jihadiste giunte in parte dalla Libia, hanno volto la serenità dei ritmi del Sahel nell'insensata violenza raccontata dal film. Niente più fumo, niente più gioco del calcio, proibite canzoni e danze. Non più, in particolare, una condizione sociale accettabile per la donna, dietro a quelle porte tristemente sbarrate del villaggio fra le dune. In loro vece, l'opposizione degli estremisti nei confronti dei rappresentanti di una religione islamica ragionevole (quella invocata dall'iman al jihadista che irrompe nella moschea: Dov'è la clemenza, dov'è il perdono? ), l'incomprensione crudele fra degli uomini della stessa terra. Che, per capirsi fra loro, sono costretti a utilizzare l'inglese. E infine, la vicenda portante del film, Kidane che vive nella distesa di sabbia che fa da cornice infinitamente armoniosa al villaggio, che nella tenda riesce ancora a suonare la chitarra per la sua famiglia di pastori: soltanto poiché nessuno, una volta calata la notte, arrischia di accorgersene. E' sereno Kidane, anche se non proprio fiducioso; perlomeno fino al dramma, quando una delle sue vacche travolgerà le reti del pescatore che gli vive accanto. L'armonia di una vita che ancora sopravviveva agli stenti, la tenerezza ingenua nell'intimità familiare del protagonista, Abderrahmane Sissako la esprime grazie al magistero squisito della propria visione. L'eterna orizzontalità dei paesaggi, la fluidità continua dei movimenti di macchina, la vicinanza con gli attori colti fra la gente. Ma, egualmente, in quella fuga nel meraviglioso, nella realtà che muta in astrazione: in un processo che da sempre appartiene alla sua cultura. Così, nella memorabile partita di calcio senza pallone fra i ragazzi del villaggio: più che un rinvio colto alla celebre partita di tennis in BLOW UP di Antonioni, una squisita pantomima di sfida nei confronti dell'idiozia degli aggressori; un balletto surreale che si trasforma in grido beffardo di libertà. Visione poetica di un mondo in violenta mutazione, antologia inedita e inusitata di comportamenti umani, esigenza incontenibile di una rabbia non ancora disperata,TIMBUKTU si china allora su un mondo che chiama ormai la propria mucca GPS. Ma al quale calcolo, crudeltà e ignoranza impediscono l'accesso ai tempi moderni.
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A continuous figure of reference in African cinema but stingy on feature films since 2006 of the splendid originality of BAMAKO, now Abderrahmane Sissako literally rises with TIMBUKTU from what was once a centre of extraordinary civilization, philosophical reflection and scientific research; reconstructed today in a small remote village on the border between Mauritania and Mali. A choral film, with radically contrasting tones, unusual and eclectic for a cinema like that of the African tradition accustomed to the linear storytelling of the fable. With the simplicity of a splendid and ferocious procedure; for the poetic force of some of its sublime, almost surreal images, in their lyricism combined with that of sounds and music; for the outrage of a moral and political denunciation devoid of any ambiguity. And, even more surprisingly, for the irony, the tragic humour that the director alternates with violence. The successive colonialist spoliations, the internal struggles induced by misery, and now the mad extremism of the jihadist militias, partly from Libya, have turned the serenity of the Sahel's rhythms into the senseless violence told by the film. No more smoking, no more football, no more songs and dances. No more, in particular, a social condition acceptable to the woman, behind those sadly barred doors of the village among the dunes. In their place, the opposition of the extremists against the representatives of a reasonable Islamic religion (the one invoked by the Iman to the jihadist who breaks into the mosque: Where is clemency, where is forgiveness? ), the cruel misunderstanding between men of the same earth. Who, in order to understand each other, are forced to use English. And finally, the main story of the film, Kidane who lives in the expanse of sand that provides an infinitely harmonious backdrop to the village, who still manages to play the guitar in the tent for his family of shepherds: only because no one, once night falls, risks realising it. He is serene Kidane, even if not exactly confident; at least until the drama, when one of his cows overwhelms the nets of the fisherman who lives next to him. The harmony of a life that still survived the hardships, the naive tenderness in the family intimacy of the protagonist, Abderrahmane Sissako expresses it thanks to the exquisite magisterium of his own vision. The eternal horizontality of the landscapes, the continuous fluidity of the car movements, the closeness to the actors caught among the people. But, equally, in that escape into the wonderful, into reality that changes into abstraction: in a process that has always belonged to his culture. Thus, in the memorable football match without ball among the boys of the village: more than a cultured postponement to Antonioni's famous BLOW UP tennis match, an exquisite pantomime of challenge against the idiocy of the aggressors; a surreal ballet that turns into a mocking cry for freedom. A poetic vision of a world in violent mutation, an unprecedented and unusual anthology of human behaviour, an irrepressible need for an anger that is not yet desperate, TIMBUKTU then leans over a world that now calls its own GPS cow. But to which calculation, cruelty and ignorance prevent access to modern times.
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