Con quattro film di grande qualità nell'arco di tre anni (No, El club, Neruda e Jackie) Pablo Larrain è ormai uno dei più importanti oltre che prolifici cineasti contemporanei. Girata poco prima di Jackie, appena presentato a Venezia, questa pseudo-biografia del celebre poeta e politico cileno rappresenta il suo primo capolavoro.
Perché pseudo-biografia? Perché questa definizione riassume da sola l’incredibile originalità del film, che ha poco a che fare con i tanti, più o meno riusciti biopic in circolazione. Ma piuttosto, come appare dalle primissime sequenze subito insolite, qualcosa di ulteriore: il risultato di una sorta di work in progress, sempre sulla traccia di fatti reali, ma destinati ad essere progressivamente elaborati. Un itinerario fisico effettivamente vissuto (non per niente si parla anche di thriller dai risvolti polizieschi) da una figura che conserva un carisma inestinguibile nel Cile contemporaneo. Ma un tragitto che si fa però sempre più interiore: inventato, certo, ma infinitamente più intimo e prezioso, oltre che drammaturgicamente coinvolgente.
I fatti. Il film li condensa in pochi mesi dell’esistenza di un grande della letteratura mondiale e del politico dedicato alla sopravvivenza democratica nel proprio Paese. Nel Cile del 1948, il dittatore Videla condanna il comunismo alla clandestinità e ordina l’arresto del poeta; dopo averlo destituito dalla carica di senatore, mostrato all'inizio del film mentre si scaglia spregiudicatamente in aula contro ill governo. D’intesa con il partito, Neruda rinuncia allora al mito della propria presenza tutelare fra i dimostranti nelle strade di Santiago; sceglie l’esilio piuttosto che il carcere, sfugge alla polizia attraverso le Ande e raggiungerà infine Parigi.
Ma l’interesse del film non è tanto nella cronaca. Una sceneggiatura geniale, che permette alla regia, al montaggio, alle musiche di Pablo Larrain di abbandonarsi a continue, splendide invenzioni, trasporta tutto questo in una ulteriore dimensione, sempre più fantastica, sempre più intima. Già la descrizione di quel Neruda iniziale, letteralmente incarnato da uno straordinario Luis Gnecco, è lungi dall’essere agiografica. C’è la grande nobiltà dei versi che declama, anche se spesso di fronte a spettatori fin troppo servili. Ma la figura dello scrittore è descritta in modo bonario e giocoso, a dir poco irrispettoso: un libertino dal fisico sfatto, frequentatore di bordelli, simulatore, commediante impenitente.
Poi, la svolta. la voce narrante del film di appartiene infatti all’altro "eroe" della vicenda, Oscar Peluchonneau, l’ispettore di polizia che dà la caccia a Neruda. Personaggio impossibile più che spregevole, quasi sfuggito a un fumetto (che Gael Garcia Bernal interpreta alla meraviglia), implacabile nell’inseguimento e soprattutto in preda a una crescente identificazione nei confronti della sua preda illustre. Il gatto e il topo, la presunta vittima e il carnefice si confondono allora in una fascinazione che da poliziesca si fa farsesca, e infine estetica. Trasfigurata nella luce delle Ande, la presenza abbagliante dello sfondo confonde definitivamente la realtà della storia con il sogno dell’utopia. In un gioco sempre più astratto, nel quale le manipolazioni dell’arte di filmare di Larrain si avvicinano in modo memorabile all’immaginario squisitamente letterario del futuro premio Nobel.