Non lo dimenticherete facilmente questo Paterson; che in ognuna delle sue identiche giornate conduce un bus della cittadina nel New Jersey che porta il suo stesso nome. Che ha visto nascere Lou Costello, quello della mitica coppia comica con Bud Abbott, conosciuti da noi come Gianni e Pinotto. Ma, egualmente, uno scrittore come Allen Ginsberg. E a un altro poeta: William Carlos Williams, passato alla storia per “l’arte di rendere straordinario l'ordinario; grazie alla semplicità e alla discrezione del proprio immaginario”. Se il tredicesimo film di Jim Jarmusch rimarrà fra i suoi capolavori è proprio perché riesce, nella sua infinita delicatezza, a ricreare in immagini questo concetto.
Nel suo riserbo modesto, Paterson è pure lui un poeta minimalista. Ogni giorno, lungo il medesimo percorso, osserva dal suo posto di guida i piccoli dettagli quotidiani della cittadina, capta frammenti delle conversazioni che avvengono fra i passeggeri. Per infine, annotare in versi, sul taccuino che porta sempre su di sé, tutta l’apparente banalità di quel quotidiano. Regista da sempre raffinato, un po' rockettaro e modaiolo, Jim Jarmusch sembra confondersi nel placido, incantato Paterson (Adam Driver, già Miglior attore a Venezia nel 2014 in Hungry Hearts di Saverio Costanzo). Lo coglie allora in primissimo piano, all’inizio di ognuno dei sette episodi che scandiscono la settimana di Paterson, quando si sveglia ogni mattina alle sei e quindici minuti esatti. Accanto alla sua assai più mutevole Laura (l’adorabile iraniana Golshifteh Farahani), affinché possano raccontarsi i loro sogni appena trascorsi, prima che lui riparta per la sua immutabile, sempre disponibile giornata. La monotonia imperante, l’eleganza vanamente rincorsa?
No, la grazia assoluta. Mentre Laura prepara pasticcini, suona la chitarra, rinnova guardaroba e arredamento (il tutto rigorosamente in bianco e nero: a somiglianza di un cinema scomparso, da sempre riconcorso dall’autore di Dead Man e Ghost Dog ), lui discute di jazz e Iggy Pop con il proprietario del pub dove si reca ogni sera. Prima di sfiorare con un bacio la moglie, al suo ritorno: affinché lei gli ripeta quanto sia delizioso il suo gusto leggero di birra.
Tutto è così gracile in Paterson, così poco importante da farci temere ad ogni istante il peggio. Ma i versi leggeri del taccuino ricalcano alla perfezione, quasi in un incastro armonioso di contrappunto, le immagini altrettanto normali e pulite della cittadina; un modo mirabile di significare gli sfondi che il cinema del regista possiede da sempre.
Ecco allora un incontro delizioso con una ragazzina che Paterson scopre autrice di versi ancora più adeguati dei suoi. Ecco un finale in stato assoluto di grazia nella sua economia di mezzi. In due linee minimaliste di linguaggio impossibile, l’incontro surreale con un turista giunto dal Giappone, pure lui alla ricerca degli angoli prediletti dal solito William Carlos Williams. Momenti di poesia sospesa nel tempo, ineffabile antidoto all’agitazione fracassona che ci circonda di un film fragile da fare decantare nella nostra memoria.