Sesto lungometraggio in sei anni dell'enfant prodige del Québec reduce dall’acclamatissimo Mommy, Juste la fin du monde innanzi tutto sorprende, come d'altra parte tutto quanto girato finora da Xavier Dolan. Non soltanto per le sue qualità artistiche: queste andranno valutate nel proseguo di una carriera ancora tutta da scoprire in un cineasta di soli 27 anni. Ma perché questo kammerspiel, tutto vissuto sui primissimi piani dei personaggi, quasi esclusivamente inventato all’interno di pochi ambienti, rappresenta uno sberleffo salutare al conformismo imperante. Al frettoloso consumo, al giudizio di comodo che ormai facciamo del cinema, come di tutti gli altri prodotti che ci vengono serviti.
Questa storia, emozionante, certo impegnativa ma per nulla elitaria (a condizione di essere minimamente disposti nei suoi confronti), Xavier Dolan l’ha infatti scritta agli antipodi cinematografici di Mommy: E' quella di un giovane scrittore, che dopo dodici anni di assenza ritorna in famiglia, con l'intenzione di annunciare la sua prossima fine. Una vicenda (tratta dalla pièce di Jean-Luc Lagarce) in epoca di AIDS: ma in un film (postmoderno come tutti quelli del cineasta) che è diventato sulla famiglia e la comunicazione.
Come alcuni altri grandi autori (ricordate quando Stanley Kubrick riprendeva le medesime preoccupazioni intime, ma esprimendole in un genere ogni volta inedito?) Dolan sembra rifiutare di lasciarsi incollare l’etichetta (pertanto redditizia) dell’esplosivo, sensuale e pure esilarante manipolatore di emozioni. Mommy nasceva nel segno di quell’ansia continua di aprirsi alla vita; di una esaltazione esistenziale destinata fatalmente a scontrarsi con quella sociale. Puntualmente, il regista l’aveva tradotto in un inedito formato quadrato, genialmente destinato a spalancarsi sullo schermo panoramico nei momenti più lirici.
Al contrario, tutto è destinato ad implodere In E' solo la fine del mondo. Nei significati, ma già nell'uso sistematico delle focali lunghe: claustrofobico, rivelatore dei minimi soprassalti di quella geografia di fisionomie, di psicologie isolate e quindi catturate nella densità impressionante delle loro emozioni. Entriamo così non solo nell’intimità di quella manciata di personaggi prigionieri dell'ambiente. Ma nella dimensione più segreta e preziosa della vicenda: l’importanza e la commozione del non detto. Della difficoltà di comunicare, anche con coloro che ci stanno più vicini. Della fragilità che si cela dietro i silenzi, come dietro le grida.
Il Gran Premio dell'ultimo festival di Cannes rappresenta così non solo una svolta stilistica clamorosa e da alcuni fraintesa. Non tanto una sfida professionale di per sé stessa già notevole nel dirigere per la prima volta un cast di mostri sacri lontano dai propri accenti linguistici; il tutto senza disperdere il proprio universo poetico. Non soltanto una dimostrazione stupefacente di maestria cinematografica nella direzione di un cast strepitoso, come di un montaggio dall'infinita intuizione; ma fino a una scelta delle musiche, com'è abitudine dell'autore, esaltante e commovente.
Logicamente e spregiudicatamente inserito nella vena più intima e raccolta del suo autore, che già gli aveva permesso lo splendido Tom à la ferme, il film ci rende ancora più curiosi nei confronti della prossima svolta inventata dall'enfant terrible del cinema contemporaneo.