La vicenda di Silence si svolge nel Giappone del diciassettesimo secolo. A dire il vero, essa ha origine 50 fa, nei pressi della Bowery, il quartiere più disastrato di Manhattan. Vi abitava la famiglia, nata da immigrati italiani, di Martin Scorsese: allora adolescente, cresciuto nella religione cattolica, destinato a diventare una figura emblematica del cinema moderno. Non solo per il linguaggio, un manierismo magistrale che influenzerà lo stile di tanti cineasti; ma per una sua inquieta introspezione morale, che mai lo abbandonerà.
“ Un ragazzino italiano per quelle strade: come diventare un individuo decente? Non avevo che due scelte, diventare un delinquente o farmi prete. A 14 anni, entrai in seminario.” Tutto il cinema dell’autore di Quei bravi ragazzi è racchiuso in quella sua considerazione. Nato nella seduzione degli irripetibili fermenti creativi degli anni Settanta e Ottanta, il suo non sarà mai solo un viaggio nella creatività artistica: ma un itinerario, spesso sofferto, sopratutto interiore. Scandito dagli stessi interrogativi che animano Harvey Keitel e Robert De Niro nel 1973 del suo primo film di successo, Mean Streets. Nei tassisti che seguiranno (Taxi Driver), i pugili (Toro scatenato), musicisti (New York, New York), nottambuli (After Hours) e, inevitabilmente, goodfellas assuefatti alla violenza (Quei bravi ragazzi). Poveri, piccoli Cristi: che si guadagnano la loro fetta di paradiso, magari solo di purgatorio, attraverso un loro calvario privato. Un martirio fra le luci al neon, che poteva condurli alla redenzione.
L’ultima tentazione di Cristo (1988) rappresenterà la conclusione ineluttabile di quell’itinerario, il passaggio dalla piccola alla grande martirologia. Il Calvario più celebre della nostra storia non poteva che essere filmato dall'autore di tutta quella serie di coscienti assunzioni, di autopunizioni redentrici. E Gesù non sarà un superman al quale tutto riesce facile, dal predicare al morire. Ma un essere che apprende con fatica e sofferenza la parola di Dio e la strada verso la perfezione. Nel film, la trasmetterà alla logica, così imperfetta in quanto umana, di Giuda. Lo spirito e la carne, scriveva Kazantzakis nel romanzo originale, sono due poli opposti, fra i quali la vita di un uomo può lacerarsi.
Silence, il film che Scorsese voleva girare da anni senza trovare un produttore (forse comprensibilmente) che glielo permettesse, nasce dal desiderio di affinare quei sentimenti (e dell’altro suo film esplicitamente “religioso”, Kundun). Un’esigenza che merita tutto il rispetto: affrontata però a trent’anni di distanza, da un artista settantacinquenne che nel frattempo ha girato tanto cinema, anche di grande qualità, ma dai contenuti meno sofferti. Non deve allora sorprendere il fascino cosi duraturo esercitato su Scorsese dal romanzo di Shusaku Endo: “ La verità storica è rappresentata da quei due missionari portoghesi che si recano nel Giappone del XVII secolo per evangelizzare, malgrado gli immensi pericoli. Ma ad affascinarmi è sempre stata la loro progressione spirituale: i dubbi, la possibilità di una rinuncia, gli interrogativi sul silenzio di Dio. Il dilemma di Padre Rodriguez è irrisolvibile. Essere un buon cristiano, ma sacrificando cosi delle vite umane; oppure abiurare, rinunciare alla propria fede, salvando gli innocenti? E’ proprio in questa rinuncia che il protagonista ritrova la verità: la salvezza va ricercata in ogni minuto del presente, la redenzione non è mai compiuta. Io stesso, ho dubitato dell’esistenza di Dio; ed è una delle ragioni per le quali ho cercato cosi a lungo di fare questo film. “
I 160 minuti di Silence affrontano cosi i grandi temi cari a maestri come Dreyer o Ingmar Bergman, il silenzio di Dio nei confronti della sofferenza, la presunzione di chi ha la pretesa di detenere la verità. Altri, come la vanità nel martirio, l’inganno della fede nei confronti dei fedeli, sembrano invece affiorare con forza dall’odissea particolare dei due gesuiti, confrontati alla persecuzione degli umili cristiani costretti a rinnegare la fede o affrontare il martirio.
Nel privilegio della nobile, ma forse smisurata ambizione spirituale di questa prova qualcosa sembra però averne anche intaccato l’indispensabile sublimazione creativa. Forse nella preoccupazione di sfumare in tutto quel privato la celebre euforia espressiva scorsesiana, e malgrado la fedeltà dei vari collaboratori storici (primo fra tutti Dante Ferretti, autore della sapiente ambientazione giapponese ricreata a Taiwan) l’impegnativa durata del film fatica a concretizzarsi nella sua più significativa seconda parte. Non mancano ovviamente splendidi squarci, ma egualmente le situazioni ripetute e stagnanti; non tutto scorre facilmente nei dialoghi fra la divulgazione e l’approfondimento. E, quasi paradossalmente, è il cast nipponico (l’inquisitore di Issei Ogata, che permette di introdurre utilmente il tema dello scontro di civiltà; o l’umanissima presenza di Kichijiro, il Giuda giapponese ) a risultare il più coinvolgente.