Un film duro, qualcuno dirà cupo. Ma forse il più solido, ambizioso e difficile da dimenticare fra quelli in competizione al Festival di Locarno del 2016. Non fosse che per il soggetto, tratto da una novella autobiografica di Max Blecher, scrittore romeno morto all’età di 29 anni in un sanatorio per una forma di tubercolosi ossea. Quell’ospedale situato in un limbo tra la commedia e la tragedia sulle rive del Mar Nero, la prigione dalle porte spalancate dalle quali è sempre meno facile (desiderabile?) sfuggire, i personaggi situati in una durata temporale palpabile non possono che ricordare l’immortale La montagna incantata di Thomas Mann. Anche se qui, in un film che ha come fulcro della visione un letto d’ospedale di una struttura medica situata tra le due Grandi Guerre, l’incanto è messo a dura prova.
Grazie al rigore e anche a una indubbia perizia cinematografica Radu Jude sconfina miracolosamente da una cornice che non potrebbe altrimenti che risultare deprimente. Per certi aspetti il film sembra assumere gli aspetti di una cronaca di una medicina dalle apparenze arcaiche; ma per subito sfuggire a quella sorta di realismo, per rifugiarsi dal mondo degli incubi a quello dei sogni. Nei quali la malattia è costretta a cedere il passo nei confronti della sessualità dapprima, dell’amore in seguito. Così, il miracolo dello sguardo di un cineasta, dell’interpretazione di un attore confinato negli ingranaggi di una chirurgia obsoleta, finisce per mutare l’esperienza disperata di Max Blecher in un’avventura a tratti scanzonata.