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ULTIMO TANGO A PARIGI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 marzo 1973
 
di Bernardo Bertolucci, con Marlon Brando; Maria Schneider; Jean-Pierre Léaud; Massimo Girotti; Maria Michi (Italia - Francia, 1972)
 
Sogno straordinario e impossibile di un viaggio a ritroso, alla ricerca di un mondo perduto e sublime nel quale i rapporti fra gli esseri non siano ancora stati contaminati dalle conseguenze dell'evoluzione umana. Che questa evoluzione abbia distrutto almeno altrettanto di quanto abbia costruito è, per Bertolucci, pacifico. Da qui uno dei miracoli del film, che è anche (oltre che fremente analisi di una condizione umana) opera di denuncia politica e sociale.

ULTIMO TANGO A PARIGI si articola su tre momenti. La storia di un fallimento umano e sociale (il suicidio della moglie di Brando, l'albergo con i suoi ospiti-naufraghi), il tentativo di uscirne attraverso una ricerca dell'assoluto (l'appartamento) e l'impossibilità finale di liberarsi dalle scorie ereditate da secoli, con la disgregazione della coppia e la corsa finale verso la morte. Un film estremamente ricco di significati, di interessi, un film difficile da farsi dal quale Bertolucci, poco più che trentenne, esce con maturità superba.

I cardini sui quali poggia la difficile costruzione sono l'abilità della direzione degli attori, e naturalmente, l'incontro con Marlon Brando: che trova qui il ruolo più straordinario, più scavato nella propria psicologia, di una carriera pertanto ricca di momenti validi.

Quindi, l'arte dell'ambientazione. E' l'ambiente, componente primo di ogni istante cinematografico genuino, che significa i tre momenti dell'opera. L'albergo, con il suo senso di provvisorietà e di squallore, con il gioco delle scale e delle porte (così care a Bresson) è l'inferno sconsolato della distruzione. L'appartamento, a partire dall'atrio stupendamente stilizzato, dall'ascensore simbolicamente introdotto, è la campana di vetro dentro la quale Brando cerca la salvezza. Chiuso al sole, alla vita esterna, ai rumori; ovattati, come la matrice, l'uovo nel quale i due individui tentano di rientrare, dimenticando i fatti, i nomi, i ricordi che hanno distrutto la possibilità del rapporto umano.

Poi, il mondo esterno parigino, con i suoi riferimenti ad un certo cinema dall'anteguerra francese (i riferimenti a Vigo sono chiarissimi) e che serve a bilanciare la clausura dell'appartamento, a rilanciarne anzi la forza, con le sue fugaci ma efficacissime annotazioni temporali (come la presenza della polizia per le strade). Oltre che per inquadrare il personaggio che rappresenta l'opposto di quello di Brando, il regista-fidanzato interpretato da Léaud (personaggio, occorre dirlo, che coincide anche con il solo punto debole del film, per la sua eccessiva e gratuita caratterizzazione).

Mentre è sempre l'arte dell'ambientazione a dominare le sequenze dell'ultima, stupenda parte del film, quella della distruzione della coppia e della morte del protagonista. La potenza delle sequenze del ballo, degne del miglior Visconti, parrebbe inutile sottolinearla. Sullo sfondo di una umanità di manichini, di cadaveri resuscitati, Paul e Jeanne si vedono per quel che sono: privati dello stato di grazia della loro isola, del loro sogno di astrazione sessuale. I lineamenti, il comportamento di Brando paiono disfarsi in pochi momenti di una luce che sembrava eterna. Ed è il ritorno nell'oscurità dei gesti umani “normali”, in quelle tenebre disperate e impotenti dalle quali aveva cercato di uscire. L'inseguimento di Jeanne, fino all'appartamento che altro non è che una corsa lucida e cosciente verso la morte, non rappresenterà più ormai che una semplice formalità esistenziale.

Costantemente in bilico tra l'analisi lucida e impegnata di una società e dei rapporti che la regolano, ed il fremente romanticismo dell'incontro con un'esperienza umana disperata, Bertolucci riesce una delle opere più destabilizzanti e poetiche del cinema degli ultimi anni.


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