Tradotto beceramente in L'AMERIKANO, con Stato di assedio il regista franco-greco torna a denunciare le dittature di destra, come fece in Z, dopo essersi dedicato a quelle di sinistra.Il principio comunque non cambia: si tratta di drammatizzare spettacolarmente un racconto solitamente assai vicino a fatti realmente accaduti, per dipingerne il sottofondo politico. O, meglio, la meccanica della repressione politica. Sono film onesti, utili e fatti in buona fede. Sono utili perché invitano gli spettatori ad approfondire le cose. Sono in buona fede perché sfruttano il richiamo spettacolare di un certo tipo di linguaggio cinematografico a scopi più o meno morali.
Detto questo, e sottolineato l'interesse attuale e, come detto, morale del film, occorre però rilevarne l'insignificanza espressiva che non supera quella di una pulita realizzazione, sulla strada di un ormai provato (ma anche comodo) scarno linguaggio televisivo.
Insignificanza formale che potrebbe anche importare poco, visto gli intendimenti onorevoli dell'autore, ma che può anche diventare insignificanza delle idee. Trascinando cioè, nel qualunquismo del linguaggio, anche quello del discorso. Come già in LA CONFESSIONE, anche in ETAT DE SIEGE, dietro al gioco sperimentato di Yves Montand sul quale si impernia sempre il messaggio, fanno capolino le contraddizioni, le ambiguità di tutto un sistema commerciale che finiscono con l'invalidare in gran parte le buone intenzioni del regista. E così la caratterizzazione dei personaggio di contorno, l'uso delle masse (in questo caso le lunghe manovre della polizia), del montaggio, dell'impiego degli obiettivi, della musica. Siamo, in conclusione, assai lontani da opere come quelle di Rosi, o come TEMPESTA A WASHINGTON di Preminger.