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I PONTI DI MADISON COUNTY
(THE BRIDGES OF MADISON COUNTY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 ottobre 1995
 
di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Meryl Streep, Annie Corley, Victor Slezak (Stati Uniti, 1995)
 

Sempre di più, il cinema dell'ex Ispettore Harry, ed ormai di colui che alcuni considerano il più grande dei cineasti americani contemporanei (diciamo, certamente il più personale fra quelli della vecchia guardia) si riassume in una riflessione sull'ambiguità.

Che assumi le sembianze dei vari generi rivisitati (a ritroso: il thriller-road movie di UN MONDO PERFETTO, il western di GLI SPIETATI, l'avventura esotica di CACCIATORE BIANCO, CUORE NERO, la biografia di BIRD) lo sguardo melanconico, al tempo stesso virile di Clint Eastwood ci invita infatti a meditare sulla relatività del decidere: fra il bene ed il male, il giusto e l'ingiusto, l'innocente ed il perverso, il generoso ed il meschino. Ed è proprio perché i due protagonisti di I PONTI DI MADISON COUNTY entrano in questo gioco maturo, sensibile e non solo commovente, che il film (ereditato da Eastwood via Spielberg, il quale pensava in un primo tempo di affidarlo a Sidney Polllack ed a Bruce Beresford) non assomiglia per niente al polpettone melodrammatico dal quale è tratto, il best-seller di Robert James Waller.

Immaginate un fratello ed una sorella che scoprono il grande segreto della madre appena defunta: nel 1965, mentre il marito ed i figli si recano ad una fiera di bestiame, Francesca vive quattro giorni di follia amorosa con Robert, un fotografo del National Geographic capitato nella campagna afosa, reazionaria dello Iowa per un servizio sui celebri ponti coperti del paese. Due solitudini (quella dell'insegnante pugliese che sposando il marine andava a seppellire i propri sogni; quella del fotografo, lupo solitario più avvezzo alle lande africane che allo schermaglie amorose) che s'incontrano per caso, si fondono in un tripudio spirituale e sensuale che mai avrebbero immaginato, per poi doversi lasciare subito, e per sempre. Amore sacrificato, che proprio per questo resisterà all'usura del tempo: che, addirittura sopravviverà agli amanti, poiché servirà da guida esistenziale quando i figli scopriranno l'accaduto. Classico schema del melodramma -e non solo cinematografico, alla Douglas Sirk- che solo la straordinaria giustezza di tono di un regista ai confini fra maturità e vecchiaia, di un artista prodigiosamente incurante delle leggi che governano l'impero del prodotto hollywoodiano, così come quelle del puritanesimo imperante nel proprio paese poteva salvare dal risaputo, per non dire dal ridicolo.

Coraggio e semplicità, onestà e poesia. Non è solo che Eastwood abbia il coraggio dei buoni sentimenti: il suo è quello di spogliare l'archetipo melodrammatico da ogni convenzione. Non c'è un tramonto, una sviolinata, un sospiro di troppo nel film. Ma il coraggio di tempi sufficientemente lunghi, sapientemente esatti per significare una situazione, per sondare degli stati d'animo; dei silenzi così significativi, che solo interrompono gli echi della natura, i riflessi della luce, l'eco di una canzone di Dinah Washington o di un brano d'epoca di Ahmad Jamal. Coraggio di filmare l'incontro fra una quarantacinquenne (Meryl Streep) ed un uomo di 52 anni (che in effetti ne ha 65, Eastwood stesso), i loro discorsi attorno ad un tavolo di cucina, i piccoli gesti di tenerezza (dettaglio indimenticabile del primo osato, la mano di lei che e riordina il colletto della camicia di lui), la forte, anche se pudica sensualità che nasce dall'incontro dei corpi. Coraggio di mostrare (come aveva saputo fare Jane Campion ne LA LEZIONE DI PIANO) il desiderio erotico della donna; e la fragilità, o piuttosto il non-utilizzo dello schermo virile da parte dell'uomo. Coraggio di affidarsi al potere - supremo, ma pure fragile, nella su astrazione - della regia, da parte del cineasta Eastwood. Che non ci pensa nemmeno (come avrebbero fatto 99 registi su 100) a vivacizzare la staticità della situazione con degli espedienti più o meno pertinenti: ma che si affida - con intuizione sopraffina alle tensioni che nascono fra i personaggi, all'interno di uno spazio perfettamente contenuto che diventa quello delle loro personalità.

Situazioni banali; ed al tempo stesso così giuste da far risentire allo spettatore quasi un sentimento d'intrusione. Momenti privilegiati, nei quali la quotidianità dell'avvenimento s'incontra, quasi per miracolo, con la potenza, il mistero del Mito: come quando, al loro ultimo incontro fortuito, Clint appare come un fantasma sotto la pioggia scrosciante per ristare impietrito. Inquadratura memorabile poiché straniante, fuori dal tempo e dall'azione, che rimanda al cavaliere solitario dei suoi vecchi western, all'uomo del destino che compare dal nulla per catalizzare lo scontro, esaltare i valori, prima di scomparire nel nulla.

I PONTI DI MADISON COUNTY è malgrado tutto ciò un'opera di comanda. Non vanta la perfezione di UN MONDO PERFETTO (gli avvenimenti contemporanei sono un po' pretestuosi, il figlio pare l'Edipo spiegato al popolo, la costruzione in flash-back talvolta nociva alla continuità emotiva del film) e nemmeno la distruzione iconoclasta, l'epocale disperazione di UNFORGIVEN. Ma è una lezione di cinema, di come una sceneggiatura intelligente possa epurare la volgarità per trattenere l'essenzialità, di come una regia ispirata, trasparente ed onesta possa ridarci i valori eterni - ormai violentati - della vita.

E trasformare i temi di sempre, la malinconia (non certo la nostalgia) del trascorrere del tempo, la trasgressione per venire a capo dell'ingiustizia, in un discorso morale che si fa azione politica dapprima, riflessione filosofica infine.


   Il film in Internet (Google)

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