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Si può indirizzare l’intimità di un’autobiografia verso l’omaggio, per volgerla infine in espressione artistica? Se si, in altre parole se il cinema è ancora in grado di percorrere questo tragitto felice, The Fabelmans è probabilmente il film più significativo dell’anno. Rincorrendo quell’oggetto ormai un attimo sfuocato chiamato cinema, il trentaquattresimo lungometraggio di Steven Spielberg si traduce ancora in un atto d’amore imperdibile.
La qualità, il fascino, l’emozione che The Fabelmans riesce a sollevare non nascono però semplicemente dal fatto di essere una (pur parziale) autobiografia. Non tanto cioè la confessione di un gigante del cinema moderno che si sta avvicinando agli ottant’anni sulle orme talvolta dissimili ma quanto significative di E.T., Indiana Jones, Jaws, Jurassic Park, La lista di Schindler o West Side Story. Non soltanto un racconto: che inizia nel 1952 alla periferia del New Jersey, quando i genitori decidono di recarsi per la prima volta in una sala cinematografica accompagnando il figliolo qui chiamato Sammy. Il film era l’ultimo firmato da Cecil B. DeMille, Il più grande spettacolo del mondo, ma il giovanissimo Sammy non apprezzò. Traumatizzato come fu dal realistico scontro ferroviario illustrato nella pellicola.
L’intelligenza, l’interesse di The Fabelmans fanno si però che l’esorcizzazione di quel trauma, le prime esercitazioni con le cineprese otto millimetri, la scoperta casuale attraverso l’obiettivo di un determinante dramma famigliare che condizionerà la famiglia, costituiscono soltanto le premesse ad una sempre più implicita riflessione. Vieppiù lontana dalla prevedibilità del romanzo di formazione; ma egualmente confrontata con elementi che coincidono con la biografia di Spielberg e la sua famiglia ebraica di origine russo-ucraina. Un binario, imprevisto, commovente e sapiente, costantemente apportatore di ulteriori motivazioni. Sorprendente nella sua semplicità, che s’inizia con un ragazzino che va al cinema; ma già si appresta ad abbandonarlo appena raggiunta una età adulta che ne farà per molti il cineasta moderno per eccellenza.
Resta allora ciò che conta: l’importanza determinante dello sguardo nel cinema, la forza del suo potere quando si tratta di scoprire, addirittura modificare l’apparenza della realtà osservata. Alla ricerca della verità e della conoscenza. Infiniti segreti mai traditi di una tensione emotiva che nel film sfoceranno in una risonanza poetica disarmante.
* Vogliate p.f. cliccare su www.filmselezione.ch per la lettura completa della raccolta di critiche cinematografiche FILMSELEZIONE di Fabio Fumagalli
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Can one direct the intimacy of an autobiography towards homage, to finally turn it into artistic expression? If yes, in other words if cinema is still able to tread this happy path, The Fabelmans is probably the most significant film of the year. Chasing after that now blurry object called cinema, Steven Spielberg's 34th feature still translates into an unmissable act of love.
The quality, the charm, the emotion that The Fabelmans succeeds in arousing, however, do not arise simply from the fact of being an (albeit partial) autobiography. That is, not so much the confession of a giant of modern cinema who is approaching eighty years of age in the sometimes dissimilar yet significant footsteps of E.T., Indiana Jones, Jaws, Jurassic Park, Schindler's List or West Side Story. It is not just a story: it begins in 1952 in the suburbs of New Jersey, when parents decide to go to a movie theatre for the first time, accompanying their son here called Sammy. The film was Cecil B. DeMille's latest, The Greatest Show on Earth, but the very young Sammy did not like it. Traumatised as he was by the realistic train crash depicted in the film.
The intelligence, the interest of The Fabelmans make, however, that the exorcising of that trauma, the first exercises with the eight-millimetre camera, the accidental discovery through the lens of a decisive family drama that will condition the family, constitute only the premises for an increasingly implicit reflection. Far from the predictability of the coming-of-age novel; but equally confronted with elements that coincide with Spielberg's biography and his Jewish family of Russian-Ukrainian origin. A binary, unexpected, moving and wise, constantly bringing further motivation. Surprising in its simplicity, which begins with a young boy going to the cinema, but is already preparing to leave it as soon as he reaches an adult age that will make him the modern filmmaker par excellence for many.
What remains, then, is what counts: the decisive importance of the gaze in cinema, the strength of its power when it comes to discovering, even changing the appearance of the reality observed. In search of truth and knowledge. Infinite secrets never betrayed of an emotional tension that in the film will result in a disarming poetic resonance.
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