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Impossibile da togliere dalla mente, Ariaferma è un film sullo spazio. Quello dell’intimo, che diverrà predominante; e quello concreto, fisico, splendido all’inizio nella sua evidenza. Quando, fra le montagne della Sardegna, appare infatti l’anfiteatro clamoroso di una vecchia prigione destinata ad essere demolita. Senonché, il trasferimento degli ultimi detenuti viene improvvisamente sospeso, per delle ragioni non meglio identificate. S’indovina allora lo smarrimento generale fra i vecchi, abitudinari carcerati. Ed egualmente, fra la mezza dozzina di custodi, noti allo spettatore fin dall’incipit della pellicola. Quando festeggiavano, attorno ad un allegro, un attimo sconcertante e forse liberatorio, di certo copiosamente innaffiato bivacco. Ma sprofondato nella profonda oscurità della foresta circostante. Poiché Ariaferma non è una prison movie, il risaputo carcerario che ti aspetti. E’ uno spazio in disequilibrio fra presente e futuro, il possibile e l’utopia. Abitato da due personaggi altrettanto immensi di quei concetti: Toni Servillo, il carceriere incaricato di gestire la situazione probabilmente esplosiva. E Silvio Orlando, capo camorrista a fine pena apparentemente gelido, altrettanto significativo. Su quei binari, nei chiaroscuri estremi destinati a relativizzare le apparenze e i preconcetti, nel realismo che muta nel fantastico sotto lo sguardo di un cineasta che proviene dal documentario, Ariaforma allora si trasforma. Diventa anche politico e commovente, in quella oscura prigione incombente. Sempre però in un equilibrio sfavillante; miracoloso costretto com’è fra gli argini di un moralismo incombente costantemente minaccioso. Nel 2017 de L’intrusa si diceva splendida l’attenzione all’ambiente, la generosità di uno sguardo sulla realtà. In Ariaferma lo stesso sguardo di Di Costanzo si è ormai impadronito di tutta l’oscurità che ancora lo circondava.
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Impossible to get out of your mind, Ariaferma is a film about space. That of the intimate, which will become predominant; and that of the concrete, physical, splendid at first in its evidence. When, in the mountains of Sardinia, the clamorous amphitheatre of an old prison destined to be demolished appears. However, the transfer of the last inmates is suddenly suspended, for unidentified reasons. One can then guess the general bewilderment among the old, habitual prisoners. And equally, among the half-dozen caretakers, known to the spectator from the film's opening. When they were celebrating, around a cheerful, a disconcerting and perhaps liberating moment, certainly copiously watered down bivouac. But plunged into the deep darkness of the surrounding forest. For THE INNER CAGE is not a prison movie, the well-known prison you expect. It is a space in disequilibrium between present and future, the possible and utopia. Inhabited by two equally immense characters of those concepts: Toni Servillo, the jailer in charge of managing the probably explosive situation. And Silvio Orlando, an apparently icy, equally significant Camorra boss at the end of his sentence. On those tracks, in the extreme chiaroscuros intended to relativize appearances and preconceptions, in the realism that changes into the fantastic under the gaze of a filmmaker who comes from documentary filmmaking, Ariaforma then transforms. It also becomes political and moving, in that dark impending prison. Always, however, in a sparkling balance; miraculous constrained as it is between the banks of a constantly threatening looming moralism. In 2017, THE INTRUDER'S attention to the environment, the generosity of a look at reality, was said to be splendid. In THE INNER CAGE, Di Costanzo's same gaze has now taken over all the darkness that still surrounds it.
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