Fumagalli
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I rapporti padre-figlio vanno forte; produrranno anche grattacapi, ma riescono a generare ottimi film. E' ancora viva l'emozione provocata da UN FIGLIO, dei fratelli Dardenne: con quel suo modo cosi forte e originale di illustrarci la fatica, ma pure l'esaltazione del passaggio generazionale della conoscenza, dei legami intimi che nascono dalla trasmissione del mestiere, del mistero della rassomiglianza, della mimesi e del rifiuto che nascono progressivamente nel rapporto fra il giovane e l'adulto. Ed ecco riapparire tutte queste sensazioni -sorprendentemente sotto forma di evocazione delle atmosfere più classiche ed esplicite della gangster-story- in questo ERA MIO PADRE. DI quel Sam Mendes autore di un'indagine particolare e non dimenticata sugli sfracelli del Sogno americano come AMERICAN BEAUTY.
Da un falegname ad un killer; ambedue fatti a modo loro, ambedue segnati dalle ferite di chi ha convissuto con la morte, ma deve ora confrontarsi alla continuità della vita. E due ragazzini: egualmente coinvolti nel dramma che li ha voluti protagonisti, ma inevitabilmente avviati al faticoso percorso dell'iniziazione, quella "road to perdition" che si è persa nella traduzione del titolo originale. Quello di Sam Mendes è figlio di un fedele e scrupoloso luogotenente della gang irlandese che controlla il traffico di alcolici nella Chicago e dintorni del 1931: testimone, più o meno involontario, di una strage nella quale è coinvolto il padre. Non rimane che l'ansia della fuga (impossibile?), per aver infranto le regole del segreto mafioso; ma non soltanto. Dovranno affrontare quella della relazione padre-figlio: affinché non ne rifletta, o peggio ancora ne esalti -ed è pure uno dei problemi posti dal film- l'itinerario perverso, o quanto meno ambiguo. Riuscirci, o meno, significa per il film non soltanto impostare una riflessione sull'irrisolto dilemma fra l'innato e l'acquisito, su quanto siamo in grado di intervenire per modificare un certo ordine (ognuno libero d'intenderlo come meglio crede) delle cose. Ma riuscire una illustrazione -sfida non priva di coraggio- di come sia possibile evitare la permeabilità al male.
Immerso nei chiaroscuri melanconici percorsi da sciabolate di luce di una fotografia sontuosa (Conrad Hall), ieratico, distaccato e teatrale fino ai confini della grandiloquenza, ERA MIO PADRE assume le cadenze che si rifanno agli affreschi sul Proibizionismo e la Depressione dei Coppola, Scorsese o, prima ancora, Hawks. Ma, allo stesso tempo, le cadenze della tragedia greca o shakespeariana. Sottolineate da quella figura di boss-demiurgo (un Paul Newman maestoso ed impietrito), terribile e fragile al tempo stesso, padrone assoluto dell'universo amorale che si è creato attorno, ma distrutto dalla presenza del figlio degenere ("In questa stanza non ci sono che assassini; è la via che ci siamo scelti; l'unica certezza, è che nessuno di noi finirà in paradiso"). E dall'erede di adozione (un Tom Hanks apparentemente glaciale, perfettamente a contro-impiego), costretto ad uccidere il Padre nella speranza di salvare il Figlio; o da quel sorprendente fotografo-assassino, (Jude Law), incarnazione necrofila e tragicomica del mito della Morte al lavoro.
In un'atmosfera ridondante a misura del commento musicale, non è che Sam Mendes si curi più di tanto della precisione meccanica del genere: flirta pericolosamente con la decorazione ed il sentimentalismo. Ma il suo è un melodramma che gioca sulle proprie contraddizioni, romantico e stilizzato, depresso e animato; da un'energia epica che ricorda quella di Sergio Leone. Che trova il coraggio di andare a fondo di un discorso, ideologico ed estetico. Di abbandonarsi, anche a rischio di lasciarsi sommergere come i propri personaggi, a quel diluvio inarrestabile che un cielo impietoso riversa su tutta l'infamia dell'epoca.
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Datarecensione:
(es. 31/12/01)
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(es. 31/12/01)
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