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FESTIVAL DI CANNES 2015 (2): HAYNES, SORRENTINO, BRIZE', TRIER, DESPLECHIN
  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 maggio 2015
 
(2015)
 

CANNES: QUALCHE CONTO NON QUADRA

Cannes a -2 dal termine può voler dire un Audiard o un Hou Hsiao Hsien di meno; magari una sorpresa di quelle che i selezionatori riservano per quanti considerano che i giochi sono ormai fatti. Qualche pagella andrà magari rivista in sede di Palma d'Oro, qualcuna delle nostre le vedete qui di seguito, altre seguiranno, forse influenzate da una Giuria che, ogni anno qui a Cannes, sembra concedere qualcosa in più al glamour. Una coppia di grande registi, i fratelli Coen, l'enfant prodige Xavier Dolan, una musicista del Mali, Rokia Traoré, un produttore, Guillermo del Toro, e troppi attori, Sienna Miller, Rossy de Palma,Jake Gyllenhaal, Sophie Marceau. Confrontati con una selezione che ha mostrato anche qualche incomprensibile disguido, non dovranno sparare alla cieca.

* * * * CAROL, di Todd Haynes (Stati Uniti) Negli anni cinquanta di Eisenhower una giovane venditrice di un grande magazzino (Rooney Mara) s'innamora della ricca, sofisticata e sposata Carol (Cate Blanchett); la quale arrischia di perdere la figliola a causa delle proprie tendenze lesbiche. Ci eravamo un po' dimenticati di Tod Haynes, eppure pochi come l'autore del capolavoro LONTANO DAL PARADISO o degli indimenticabili 5 episodi della serie MILDRED hanno navigato con tanta regolarità fra le stratosfere del cinema moderno americano. CAROL è una meraviglia. Non per il magistero di uno sguardo registico che ci conduce con una suadenza ritmica sublime attraverso quell'America ; non per le trasparenze di una prisma le cui irradiazioni mai estetizzanti rivelano gli agghiaccianti moralismo; nemmeno per il contrasto ammaliante proposto da coreografie, costumi, colori, musiche. No, la meraviglia di tanta fascinazione in presa diretta con i capolavori del melodramma dei Douglas Sirk e Vincente Minnelli, è di non stemperare mai in indulgenza. Ma senza calcare la mano, senza gridare, in tanto furore

* * * YOUTH (LA GIOVINEZZA), di Paolo Sorrentino Non eravamo stati teneri con LA GRANDE BELLEZZA: troppo Fellini sbandierato, quel doppio filo imprudente con LA DOLCE VITA, la stessa Roma, che sappiamo quanto bella, esausta e degradata, persino il grande Servillo incautamente accostato a quel sommo Marcello. A sorpresa, dopo un Oscar deviante, malgrado la tradizionale ostilità che gli riserva Cannes e l'ambiguità di molta critica italiana, YOUTH riporta Paolo Sorrentino ai livelli che il suo indubbio strapotere tecnico/estetico dovrebbe sempre permettergli: il manierismo sapiente ma non enfatico che gli conoscevamo. Forse, grazie a una sceneggiatura che è ritornato a scrivere da solo, lontano dai compiacimenti della collaborazione con Umberto Contarello nei suoi due film precedenti. Reclutando la divina ironia, ma anche la profonda umanità di due grandi vecchi di diversa cultura anglosassone e memoria cinematografica come Michael Caine e Harvey Keitel, chiudendosi nello scrigno favoloso delle cime che attorniano Davos e nella lussuosa cariatide di uno spa di stralusso, il barocco talvolta strabordante di Sorrentino a trovato (a soli 44 anni) tutta la malinconia della riflessione matura. Ma pure tutto l'humour del ritratto paradossale e l'esaltazione che offre la fuga nel fantastico. Tutti i vizietti che qualcuno troverà risaputi le gati a quell'ambiente, ma anche l'amore, senescente o meno, la paternità, la relatività del tempo. Ad immagine di quel cannocchiale preso alla rovescia che, piuttosto che avvicinarci alla conoscenza di più precisi dettagli, allontana la visione: ma amplificandone la comprensione generale. Cosi, Caine racconta di Stravinski, Keitel incontra una Jane Fonda maschreta da diva decadente, mentre Sorrentino organizza la follia bucolica di un concerto di mucche sparse per i prati. YOUTH è questo e altro, e non è poco.

* * * LA LOI DU MARCHE', di Stéphane Brizé (Francia) E' costato meno di due milioni di euro, eppure vale quanto le immense ripercussioni delle crisi che il mondo sta affrontando. Il viso quasi (e la straordinaria umanità del film e del suo protagonista sta tutta in quel quasi ) inscalfibile di Vincent Lindon appartiene a uno dei tanti disoccupati impossibilitati a continuare una vita che loro corrispondeva; costretto ad accettare l'impiego mortificante di repressore di furti meschini in un supermercato pur di sopravvivere con la famiglia. Lo Stato si da anche da fare, ma l'orientatore professionale non sa a che santo votarsi, la banchiera gli consiglia di vendere l'unica cosa che possiede, il modesto appartamento; per poi proporgli un prestito di 3500 euro quando gliene occorrono mille di meno. Sono tutte situazioni risapute, proprio come le facce pulite e indifese degli attori non professionali che interpretano il proprio ruolo nella vita. In un film che non è mai alla ricerca di una progressione narrativa, più di finzione dei documentari celebri di Raymond Depardon che talvolta ricorda, tutto è mostrato quasi casualmente, in una elementarità che è tutto fuorché facile, al contrario verissima e pesata. Eternizzato sul viso impressionante nella sua immobilità, trasparenza, emozione repressa di Lindon. Che osserva, assorbe, ci aspettiamo deflagri definitivamente rispetto a tanta, ineluttabile mestizia: una delle prime domande che prolungano la visione di un film verissimo.

* * LOUDER THAN BOMBS, di Joachim Trier (Norvegia) C'era molto attesa per l'autore norvegese reduce da un OSLO, 31 AGOSTO ispirato da LE FEUT FOLLET scritto nel 1931 da Drieu La Rochelle, dall'intimità melanconica, al tempo stesso leggera e consolatoria, mai didattico sulle problematiche legate alla droga. Da quella Oslo festaiola immersa nell'ultimo sole Trier è passato agli Stati Uniti, ai finanziamenti che gli hanno permesso un cast importante, una confezione sempre ambiziosa ma più (inevitabilmente?) patinata. In LOUDER THAN BOMBS c'e ancora il nucleo degli affetti, un padre (Gabriel Byrne) in difficoltà con i figli, una moglie (Isabelle Huppert) giornalista troppo assente sui fronti agitati del pianeta, una conclusione che si dovrà comprendere se dovuta al caso oppure alla volontà. Tutto commosso e fin troppo golosamente abbracciato, uno spettro cosi ampio da frenare l'introspezione che avevamo amato.

* * * TROIS SOUVENIRS DE MA JEUNESSE, di Arnaud Desplechin (Francia) Mathieu Amalric è dapprima proiettato nel ricordo di un adolescente che finisce a Minsk nel corso di un gita scolastica; porterà soldi alla Resistenza, e il proprio passaporto a un giovane ebreo. Il ritorno in Francia, gli amori giovanili, la letteratura, i rapporti con la madre lasciano presagire le storie che l'autore di raffinate ragnatele ha costruito da sempre? Meglio, poiché questo Arnaud Desplechin dei tre momenti riandati nel titolo, oltre all'abituale disinvoltura linguistica sopporta ormai il peso del film- somma. In quell'affresco di una società, oltre che di una giovane scontrosa che finirà come una riflessione sull'impossibilità di concretizzare la propria felicità, nascono tanti quadri, molti ambienti, e musiche, ispirate con una maturità che è ormai si esprime in modo sovrano. Come da sempre di testa; ma che questa volta dovrebbe soddisfare anche coloro che prediligono la pancia.

E, ancora: * * * (*) THE ASSASSIN, di Hous Hsiao Hsien; * * (*) MOUNTAINS MAY DEPART; di Jia Zhangke; * * * L'OMBRE DES FEMMES s, di Philippe Garrel; * * * AN, di Naomi Kawase; * * (*) OUR LITTLE SISTER di Hirokazu Kore-Eda; * * * SON OF SAUL di Laszlo Nemes; * MON ROI, di Maiwenn; * * (*) SICARIO, di Denis Villeneuve; 0 MARGUERITE ET JULIEN, di Valerie Donzelli; * * * (*) LE MILLE E UNA NOTTE di Miguel Gomes

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