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COLD WAR
(ZIMNA WOJNA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 19 dicembre 2018
 
di Pawel Pawlikowski, con Tomasz Kot, Joanna Kulig, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar (Polonia, 2018)
 

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Non era facile ritornare dietro alla cinepresa dopo un film come Ida. Non tanto per ripetere la prodezza di quell’Oscar del 2015, andato a uno sconosciuto dopo una stagione nelle sale incredibile per un film d’autore. Ma poiché Ida pareva irripetibile: la novizia in libertà provvisoria dal convento, la road movie della memoria negli Anni Sessanta dalle stagioni incerte, lo sfociare in un poetico, tardivo processo di formazione esistenziale.

Eppure, Cold War quasi ci riesce, a proseguire. Grazie alla medesima arte della composizione, al rigore mai artificioso del recuperato formato 4:3, al bianco e nero sfumato del naturalismo di Lukasz Szal che ricorda quello del maestro ceco della fotografia Koudelka. Una raffinatezza sontuosa nei chiaroscuri: che mai scade, esattamente come in Ida, nella decorazione vanesia. E che Pawlikowski ha l’intuizione, così urgente nel dilagare attuale delle immagini che sta banalizzando troppa parte cinema, di limitare nella sua durata. 84 minuti. Tanti gli bastano, grazie al suo ricorso nel montaggio a un’arte memorabile dell’ellisse che gli permette di evitare il superfluo, per ricostruire questa storia d’amore tra il musicista e ricercatore del folclore nazionale Wiktor e la sua bella, quanto un poco sconcertante allieva Zula. Una Joanna Kulig alla quale Cannes 2018 non ha assegnato il Premio per per l’Interpretazione forse soltanto perché al film era già andato quello per la Regia...

Una decina d’anni: dalla campagna polacca a Berlino, dalla Iugoslavia a Parigi, per ritrovarsi ancora in una Polonia nuova, ma non certo accogliente. Amarsi e abbandonarsi, ricercarsi e sfuggirsi, attraverso una decina d’anni: una migrazione dei sentimenti che finisce per coincidere a un rapporto di amore e odio con l’ambiente, le proprie origini. Una splendida e originale parte iniziale, con la formazione dei cori di musica popolare sulla quale viene a stagliarsi progressivamente l’ombra di Stalin.

Poi, una seconda, forse più convenzionale nei suoi alti e bassi sentimentali, ma con la Parigi dei club di jazz. Qui, Pawlikowski ritrova una comunione espressiva nella quale, come già in Ida, riesce meravigliosamente perdersi, per poi significarsi. Prima di un finale nel quale gli incerti del melodramma sembrano dolorosamente ma anche serenamente stemperarsi.

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It was not easy to get back behind the camera after a film like Ida. Not so much to repeat the feat of that Oscar of 2015, which went to a stranger after an incredible season in theaters for an auteur film. But because Ida seemed unrepeatable: the novice on bail from the convent, the road movie of memory in the Sixties with its uncertain seasons, it resulted in a poetic, late process of existential formation.

And yet, Cold War almost manages to continue. Thanks to the same art of composition, to the never artificial rigour of the recovered 4:3 format, to the shaded black and white of Lukasz Szal's naturalism that recalls that of the Czech master of photography Koudelka. A sumptuous refinement in chiaroscuro: that never expires, just as in Ida, in the decoration of vanity. And that Pawlikowski has the intuition, so urgent in the current spread of images that he is trivializing too much cinema, to limit its duration. 84 minutes. Thanks to his use of a memorable art of the ellipse in the editing, which allows him to avoid the superfluous, this love story between the musician and researcher of national folklore Wiktor and his beautiful, as much as a little disconcerting student Zula, is enough for him to reconstruct this love story. A Joanna Kulig to whom Cannes 2018 did not award the Prize for Interpretation perhaps only because the film had already gone to the Director...

About ten years: from the Polish countryside to Berlin, from Yugoslavia to Paris, to find herself in a new, but certainly not welcoming Poland. To love and abandon oneself, to seek and escape, through ten years: a migration of feelings that ends up coinciding with a relationship of love and hate with the environment, one's own origins. A splendid and original initial part, with the formation of popular music choirs on which the shadow of Stalin gradually emerges.

Then, a second, perhaps more conventional in its ups and downs sentimental, but with the Paris of jazz clubs. Here, Pawlikowski rediscovers an expressive communion in which, as already in Ida, he succeeds marvelously in getting lost, only to signify himself. Before a finale in which the uncertainties of melodrama seem painfully but also serenely dissolve.  

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