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FESTIVAL DI CANNES 2016: UN CAPOLAVORO E UNA DECINA DI FILM NOTEVOLI
PER UNA GIURIA ATTENTA AI VALORI UMANISTICI
  Stampa questa scheda Data della recensione: 19 maggio 2016
 
 

Cannes 2016: un capolavoro e una decina di film notevoli PER UNA GIURIA ATTENTA AI VALORI UMANISTICI Iniziamo col dire che si è trattata di una delle migliori fra le più recenti edizioni del Festival di Cannes. Dopo quella 2015 dall'incerta selezione, che aveva finito per favorire le sezioni parallele del Un Certain Regard e Quinzaine des réalisateurs ( opere come Fatima o Mustang, autori come Desplechin o Garrel che avrebbe dovuto stare nella Selezione ufficiale). Quest'anno è successo l'opposto. Con le solite dovute eccezioni (Neruda, di Pablo Larrain, Fai bei sogni di Bellocchio, il film testamento di Susan Anspach, per quanto riguarda la Quinzaine), ma compreso quel serbatoio di scoperte com'è considerato il concorso bis del Certain Regard, l'offerta parallela ha riservato poche rivelazioni rispetto a quella della competizione maggiore. Di conseguenza, e secondo logica, i giurati avrebbero dovuto approfittare di questo ritorno all'ovile del direttore Thierry Frémaux delle opere più innovatrici. E non è stato per niente il caso. Non si può infatti dire che il gruppetto composto in buona parte da attori e attrici (ma mi spiegate per quale ragione un festival dalla strabordante presenza di fenomeni mediatici deve metterli anche nella Giuria?) sia stato animato da indomito coraggio. Certo, non ha premiato opere indegne, sorvolando sul Personal Shopper di Assayas con i suoi tentativi via cellulare di comunicare con l'Aldilà; e malgrado la presenza di una sempre più sublime Kristen Stewart. Ma, con l'eccezione di una pellicola dalla clamorosa innovazione stilistica rispetto alle precedenti dell'autore (Juste la fin du monde, dell'incredibile Xavier Dolan), è sembrata affidarsi a valori, certo encomiabili, umanistici, sociali, politici; piuttosto che strettamente artistici. Illuminante in questo senso la scelta della Palma d'Oro riservata a I, Daniel Blake di Ken Loach (proprio la prima della quale abbiamo riferito nel numero precedente di Azione). La seconda, dopo quella vinta nel 2006 da Il vento che accarezza¸ dal più grande e amatissimo dei cineasti sociali e politici ancora in circolazione: un'opera dalla commossa generosità, più che benvenuta urgenza politica ed efficacia. Farà la gioia di molte iniziative sui diritti umani per molti anni ancora; ma senza collocarsi (come la sua Palma precedente) fra le più trascendenti, le meno utilitarie, dell'autore di Family Life, My name is Joe o Sweet Sixteen. Il capolavoro nell'incongruenza la giuria di George Miller l'ha comunque raggiunta destinando due premi al pur interessante film iraniano di Ashgar Farhadi, Il cliente : uno più che legittimo a sottolineare l'acuta sceneggiatura, l'altro assolutamente inutile (e oltretutto vietato dal regolamento) destinato al protagonista. Come dire: ho sette premi e almeno una decina di opere da onorare: ne spreco due e dimentico cosi un capolavoro come Elle di Paul Verhoeven, Paterson, una delle opere più poetiche della lunga carriera di Jim Jarmusch, l'ineffabile, paradossale ma splendido Ma loute, di Bruno Dumont, l'originale e a tratti irresistibile Toni Erdman della tedesca Maren Ade. *********************************************************************** I PREMI DI CANNES 2016: Palma d'Oro: I, Daniel Blake di Ken Loach Grand Prix: Juste la fin du monde di Xavier Dolan Miglior regia: Olivier Assayas per Personal Shopper e Cristian Mungiu per Bacalaureat Miglior sceneggiatura: Asghar Farhadi per The Salesman Miglior attrice: Jaclyn Jose per Ma' Rosa di Brillante Mendoza Premio della giuria: American Honey di Andrea Arnold Miglior attore: Shahab Hosseini per The Salesman di Ashgar Farhadi Caméra d'or: Divines, opera prima di Houda Benyamina *********************************************************************** L'argento del Festival è quindi andato a Juste la fin du monde, sesto lungometraggio in sei anni dello straordinario enfant prodige del Québec, reduce dall'acclamatissimo Mommy. Straordinario, il film di Xavier Dolan non lo è soltanto per le sue qualità intrinseche; le sue punte artistiche andranno probabilmente valutate nel proseguo di una carriera ancora tutta da scoprire in un cineasta di soli 27 anni. Ma perché questo kammerspiel, tutto vissuto sui primissimi piani dei personaggi e quasi esclusivamente all'interno di pochi ambienti rappresenta uno sberleffo al conformismo; al frettoloso consumo di comodo che ormai facciamo del prodotto cinema, esattamente alla stessa stregua di tutti gli altri fra i quali stiamo affondando. Questa storia, emozionante e per nulla elitista, di un giovane scrittore che, dopo dodici anni di assenza, ritorna in famiglia per tentare di annunciare la sua prossima fine, Xavier Dolan l'ha infatti scritta cinematograficamente agli antipodi di Mommy. Rifiutandosi, come alcuni altri grandi autori (ricordate un certo Stanley Kubrick che riprendeva le stesse preoccupazioni intime, ma esprimendole in un genere ogni volta inedito?) di lasciarsi incollare l'etichetta (pertanto quanto redditizia) dell'esplosivo, sensuale, a volte esilarante manipolatore di emozioni. Mommy nasceva nel segno di un'ansia continua di aprirsi alla vita, di una esaltazione esistenziale destinata fatalmente a scontrarsi con quelle sociali; a tal punto che il regista l'aveva tradotto in un inedito formato quadrato, destinato a spalancarsi sullo schermo panoramico nei momenti più lirici. In Juste a la fin du monde tutto è destinato al contrario a rinchiudersi. Nell'uso sistematico, claustrofobico ma rivelatore dei minimi soprassalti delle focali lunghe non solo entriamo nell'intimità dei protagonisti isolati dall'ambiente: ma entriamo nella dimensione più segreta della vicenda, nell'importanza del non detto, della difficoltà di comunicare con coloro che ci stanno più vicini. *********************************************************************** ...E LE NOSTRE STELLETTE: **** Elle, di Paul Verhoeven; ***(*); Juste la fin du monde, di Xavier Dolan; *** (*) Paterson, di Jim Jarmusch; ***(*) Ma loute, di Bruno Dumont; *** I, Daniel Blake, di Ken Loach; *** Loving, di Jeff Nichols; *** Toni Erdman, di Maren Ade; *** Bacalaureat, di Cristian Mungiu; **(*) Il cliente, di Ashgar Farhadi; **(*) Ma' Rosa di Brillante Mendoza; ** Sieranevada di Cristi Puiu; ** Julieta, di Pedro Almodovar; ** American Honey, di Andrea Arnold; *(*) Personal Shopper, di Olivier Assayas; * The Neon Demon, di Nicolas Winding Refn *********************************************************************** Una buona decina di film di notevole qualità sui quali ritornare al momento della (sperabile) apparizione sui nostri schermi. Primo fra tutti Elle di Paul Verhoeven, con una strabiliante Isabelle Huppert: nel quale l'olandese a lungo americano di Basic Instinct trova il proprio capolavoro, perfettamente fuso tra il suo grande mestiere hollywoodiano e una proverbiale voglia di destabilizzazione tutta europea. Tratto dal romanzo di Philippe Djian, non un film su una donna che accetta di essere violentata, non solo su una figura dall'affascinante provocazione.  Non si è mai demoni per ventiquattr'ore, spiega l'autore: mentre si affida genialmente ai fantasmi di Hitchcock e Chabrol, Cronenberg e Haneke.

Per informazioni o commenti: info@films*TOGLIEREQUESTO*elezione.ch

 
 
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