Difficile non considerarla una delle ( non molte, a dire il vero) ) delusioni di Venezia 2018. Tutti ricordano l'impatto emotivo ed espressivo provocato dal primo film del regista ungherese Il figlio di Saul. Laszlo Nemes non solo si assumeva i rischi della contestata rappresentazione in fiction dell’orrore, spesso ritenuto impossibile da rendere in immagini della Soluzione Finale. Ma riusciva a innovare all’interno del cerchio delicato che ha “romanzato” il genocidio (La lista di Schindler di Spielberg, Kapo di Pontecorvo o La vita è bella di Benigni), esaltandolo con una scelta di linguaggio per molti aspetti straordinaria.
Nessuno, fra tutti coloro che sono consapevoli del compito irrinunciabile di conservare le Memorie dai campi di sterminio, aveva ricostruito la Shoah in quel modo. Senza ricorrere alle sollecitazioni formali, alla brutalità dello spettacolo. Ma a quelle assai più sensoriali della coscienza.
Ora in Sunset (Tramonto), tutta quella sua arte del non-detto, composto da una zona d’ombra costantemente sfuocata, o fuori campo, appena intuibile, ottenuta con la cinepresa a spalla in piani sequenza sembra svanita. Meglio, riproposta per sfizio. Tutta quella evocazione mitteleuropea si è ravvicinata all'impotenza che nasce dal procedimento.