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VITUS Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 aprile 2007
 
di Fredi Murer, con Bruno Ganz, Fabrizio Borsani, Teo Gheorghiu, Julika Jenkins, Urs Jucker (Svizzera, 2006)
 

Per chi, nel bene come nel male ha convissuto con il cinema svizzero è praticamente impossibile parlare di un film di Fredi Murer senza riferirsi prima al suo autore. Ed a quello che nel 1985 ci eravamo azzardati a definire “ il film che la Svizzera potrebbe spedire in dotazione alla cineteca dell'isola deserta”. A vent'anni di distanza, HOHENFEUR appare ancora al vostro cronista come il film più bello, il più giusto di tutto il nostro cinema. Senza far torto ai Tanner, Goretta o Soutter che, sulle ali della Nouvelle Vague francese avevano finalmente fatto conoscere al mondo, con notevole coincidenza espressiva certe preoccupazioni squisitamente nostre, senza dimenticare i momenti esaltanti dell'unico grande visionario che abbiamo avuto, Daniel Schmid, quell'opera di Fredi Murer svetta ancora splendidamente sopra una carriera troppo rara e riservata: rappresentando il modello ineguagliato di un'identità cinematografica che da allora fatichiamo terribilmente a proporre. Oggetto misterioso internazionalmente ed al grande pubblico HOHENFEUR è innanzitutto cronaca della vita, di un dramma incestuoso di una famiglia di alpigiani; vista con l'autenticità impareggiabile di un occhio verista che aveva già creato il documentario WIR BERGER…Al tempo stesso, nella reclusione fra le montagne inaccessibili, la trasformazione di questa realtà nel soprannaturale e nel fantastico: il quotidiano più umile che si fa tragedia greca, la banalità dell'aneddoto che grazie all'osservazione dell'ambiente accede ai significati eterni del meraviglioso.


Personaggio straordinario, poeta nella modestia, osservatore nell'intelligenza, ambizioso nella discrezione, Fredi Murer non poteva che farsi raro e troppo inascoltato in un ambiente sfrontato e speculativo com'è quello del cinema contemporaneo. La sua carriera fatta di lunghe attese (il documentario LA MONTAGNA VERDE nel 1990, VOLLMOND nel 1998) finisce fatalmente per rispecchiare questa situazione. Così come, a modo suo, la riflette questo finalmente fortunatissimo VITUS: Premio come Miglior Film svizzero dell'anno, candidato all'Oscar, Orso di Bronzo a Berlino e 200'000 entrate nella sola Svizzera tedesca.


Ad immagine allora del suo autore, VITUS non è un film eclatante; e deve certamente alla sua “normalità”, alla semplice umanità della sua visione il successo che sta ottenendo. Film di quelli che si definiscono per grandi e poco più che piccini? Storia di un bambino prodigio che si ribellerà alla propria anormalità (oltre che al desiderio più o meno inconscio di affermazione di chi gli sta vicino), che fingerà di aver perso le proprie doti praticamente soprannaturali per vivere infine pienamente il proprio passaggio all'età adulta? Favola fatta per piacere con qualche cedimento alla convenzione (la sequenza finale del concerto, non proprio inedita)? Anche. Ma, tutto costruito com'è sull'asse esistenziale che separa il ragazzino da un nonno che ne rispecchia e rafforza le esigenze (Bruno Ganz, in una delle sue interpretazioni più sentite), costruito su una regia semplice e diretta che alla costrizione negli ambienti urbani alterna l'evasione quasi favolistica in quelli rurali, VITUS rimane nella mente per la serenità della propria visione. Una serenità che è la chiave probabile della sua universalità.


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