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GIORNATE DEL CINEMA SVIZZERO DI SOLETTA 1976 (2 ): SCHMID COME TANNER: IL CINEMA SVIZZERO E' AL PUNTO LIMITE
  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 febbraio 1976
 
Koerfer, Dindo, Schmid, Fassbinder (1976)
 

Dietro ai soliti nomi, il vuoto. Così dicevamo la settimana scorsa, al termine delle Giornate del cinema svizzero di Soletta. Giornate che dovrebbero essere uno specchio limpido del cinema nazionale: in quanto non competitive, aperte a tutti, senza una selezione preliminare. Ha impressionato, è la parola, la pochezza dei corto e mediometraggi. Poiché i lungometraggi sono in questo momento di vacche magre accessibili soltanto ai grandi nomi, è in quel campo che dovrebbero intravvedersi i talenti in formazione. Ma di talenti non ce ne sono. Si sono passate ore ed ore di fronte ad uno schermo: ma stento a ricordarmi qualche sorpresa, qualche accenno di ispirazione in un mare di qualunquismo creativo.

Se escludiamo i tre lungometraggi di Koerfer, Schmid e Dindo, se escludiamo Rondo di Imhoof sulle carceri (perché è una riesumazione, seppur preziosa, del 1968), rimane quasi nulla: un documentario di un cineasta già affermato, Soutter, tre minuti (dico bene, tre) di Rolf Lyssy che abilmente beffeggia la grandiloquenza militare mescolando le immagini conformiste del Cinegiornale, un'oretta di documentari assai sensibili del Gruppo di Tanner, di Bory e di Champion (peraltro un tono sotto le sue migliori prestazioni), oltre a quello non recentissimo su Kaiseraugst, qualche altra briciola qua e là. Su cinque giornate di proiezioni che iniziano a mezzogiorno e terminano a mezzanotte il panorama, ne converrete, è squallido.

Quello che maggiormente colpisce non è tanto l'impegno dei temi trattati. Questi (movimenti operai, Terzo mondo, psichiatria, scuole, prostituzione, la coppia, vecchiaia, ecologia, borghesia, ecc.) erano d’interesse, anche se non particolarmente inediti. Ma il denominatore comune di tutte queste belle cose è stato un qualunquismo incredibile della fattura. Se stiamo a quello che ci ha mostrato Soletta, in Svizzera non c'è un nuovo cineasta che sappia usare decentemente il mezzo a disposizione: non un'invenzione, non una intuizione cinematografica. Peggio ancora: nemmeno una corretta, scolastica disciplina. Si sono viste opere montate alla bell'e meglio, immagini messe una accanto all'altra in un puro stile parrocchiale o aziendale. Da cosa viene tutto questo? Probabilmente da tre fattori: la mancanza, in Svizzera, di una scuola teorica, la mancanza di talenti, la mancanza di soldi. Della prima abbiamo già accennato: esaurito, probabilmente, lo spunto proposto dal cinema romando degli ultimi dieci anni, il giovane cineasta non lo ha trovato codificato. Non ha quindi la possibilità di mettere a profitto quest'esperienza, e nemmeno quella di poter incontrare, discutere, confrontarsi con gli altri creatori del momento. Per mancanza di un punto d'incontro materiale e culturale.

I soldi sono pochi e forse distribuiti in modo sbagliato: quest'anno, ad esempio, la grossa fetta è andata al film di Koerfer, Der Gehülfe. 250 mila franchi che il regista non ha certamente sciupato, creando un'opera di notevole dignità. Ma forse, dei contributi anche modesti, distribuiti a degli esordienti avrebbero potuto arricchire l'arida linfa del cinema svizzero. Forse, dico. Perché è da provarsi che sia questa mancanza di sussidi ad impedire a un giovane di farsi un film, magari breve, in bianco e nero ed in 16 mm. Sono piuttosto dell'idea che se qualcuno ha qualcosa da dire ci riesce. Magari con modestia di mezzi, che possono limitarlo. Ma ci riesce: e dietro a delle immagini anche modeste l'occhio del cineasta autentico s'intravede comunque.

Su questa assai sconsolante tela di fondo spiccano i lungometraggi. Che sono stati tre, tenuto conto di quelli ritirati all'ultimo momento. Abbiamo già detto, la settimana scorsa, di due ottimi lavori: Der Géhulfe di Thomas Koerfer che attraverso una ricerca fotografica e decorativa di estremo rigore (anche se al limite quasi compiaciuta) tenta un'analisi dell'inserimento del problema delle classi nella borghesia elvetica d'inizio secolo. E il film di Richard Dindo, La fucilazione del traditore della patria Ernst S., che non è soltanto un documentario-inchiesta sul caso di uno dei tredici «traditori» fucilati per collaborazionismo durante l'ultima guerra. Ma un atto d'accusa coraggioso e limpido contro una certa giustizia di classe, una forma di vendetta sociale che sacrifica come capro espiatorio il poveraccio, mandando assolto il grosso industriale che, con la benedizione delle autorità maggiori, continua a vendere i suoi cannoni al nemico.

Il terzo film, Schatten der Engel di Daniel Schmid, era l'opera più attesa della rassegna: la delusione più o meno dichiarata che questa proiezione (anche se in una copia di lavoro, non definitiva) ha causato, ci sembra ben riassumere questo festival, ed un po' tutta la situazione attuale del nostro cinema. Daniel Schmid, è con Alain Tanner, la più grossa personalità che il cinema svizzero ha rivelato al mondo durante questo suo assai straordinario decennio di prosperità. Bastarono poche immagini del pur modesto (come impiego di mezzi) Heute Nacht oder Nie, girato in 16 mm nell'albergo di-famiglia di Flims, così come bastò la conferma di La Paloma, per dimostrare come il cinema possedesse un nuovo poeta, dallo stile inconfondibile. In Schmid è sempre stata prepotente l'influenza della cultura tedesca, e non solo quella dell'espressionismo cinematografico, ma quella letteraria, musicale e pittorica. Così come i legami con il regista che domina attualmente il fertile cinema tedesco, Rainer Fassbinder. In Schatten der Engel questa influenza si è fatta collaborazione: il film fu scritto da Fassbinder, prodotto da lui e girato con i sistemi di estrema rapidità e semplificazione per i quali il regista tedesco è noto: Il meno che si possa dire è che questo sistema di lavorazione non si adatta per nulla al processo creativo di Schmid. Perlomeno, per giungere a quel mondo poetico che noi conoscevamo.

Il peggio è, insomma, che Schatten der Engel è un film di Fassbinder, dominato dalla sua fortissima personalità. E che Schmid si è lasciato, più o meno consapevolmente coinvolgere. Fra i due esistono molti punti in comune, ma anche molte differenze. Fassbinder mette in scena, nella semplicità, dei melodrammi proletari. Non dei melodrammi, per usare parole sue, come la borghesia immagina vissuti dal proletariato: ma quelli che essa vive effettivamente. L'amore (omo o eterosessuale) è vissuto in questo mondo di sotto-privilegiati, non come una possibilità di livellamento fra le classi sociali, come negli schemi tradizionali del cinema. Ma, al contrario è un mezzo usato dalla borghesia nei confronti del proletariato per soffocarlo ulteriormente; così come la cultura, l'educazione e, naturalmente, la legge del profitto. Tutta una serie di rapporti che, nella nostra società, non portano che alla dipendenza ed allo sfruttamento.

L'armonia non può esistere nei rapporti affettivi, il sistema nel quale viviamo impedisce all'individuo di comunicare realmente, i rapporti non possono che essere isterici, sado-masochisti. Non è passando dalla posizione di sfruttato a quella di sfruttatore, cosa che secondo Fassbinder sta succedendo nella Germania di oggi, che il sotto-privilegiato risolverà la propria situazione. Per Fassbinder la borghesia è ben viva. Per Schmid, sta morendo. Schmid mette in scena, nel barocco che sfocia nel fantastico, l'agonia della borghesia. E Fassbinder disse di lui, solo pochi mesi fa: «quello che Schmid pensa, non mi interessa. E' un proprietario d'hotel, non un cineasta».

Schmid è vicino a Fassbinder perché come lui usa il melodramma per denunciare i clichés borghesi; e perché, come lui, non propone tanto delle soluzioni, quanto degli interrogativi, delle rimesse in questione che lo spettatore deve interpretare. Fassbinder, lo abbiamo visto, tende ad un suo preciso discorso politico. L’autore di Heute Nacht oder nie possiede la medesima lucidità: perché dietro alla bellezza delirante delle immagini e dei suoni di «La Paloma» vi è la volontà di denunciare la voluta trivialità del racconto, e delle ragioni storiche e sociali che stanno dietro queste strutture. Ma i due cammini, i due mondi poetici mi sembrano troppo distinti per poter procedere uniti, anche se certi fini sono i medesimi. La passione di Schmid, l'uso estremamente libero e creativo dell'immagine, dei colori, della musica, dei suoni, il lirismo vibrante, l'arte dell'eccesso, tutto quanto insomma ci aveva stupito e sedotto nei suoi film precedenti si adatta con difficoltà al rigore delle strutture, alla concezione scarna ed a volte opposta (si pensi soltanto all'uso dei colori, che Fassbinder vuole freddi e opposti, ed ai rossi di Schmid...) che il regista tedesco ha del cinema.

Da questo confronto mi sembra che sia il lirismo appassionato di Schmid ad uscire sconfitto. La sconfitta del più originale uomo di cinema svizzero appare allora quasi emblematica in questo momento: così come è già successo coi romandi, il cinema nazionale sembra perdere la propria identità, la propria ragione di essere quando viene a trovarsi a contatto con le culture straniere delle quali il nostro stesso cinema si è logicamente nutrito. E' successo a Tanner con Le milieu du Monde, succede ora a Schmid. Potrebbe essere una svolta per il nostro cinema, ma anche un punto limite.

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