La vicenda è nota. Nel Thalys, il treno ad alta velocità che collega Amsterdam a Parigi, quel 21 agosto 2015 si sfiorò la tragedia. Tre giovani americani che si trovavano a bordo riuscirono coraggiosamente ad evitare una strage, neutralizzando un terrorista belga -marocchino carico di armi e munizioni che già aveva iniziato a sparare con un kalashnikov.
Clint Eastwood, il grande vecchio ottantasettenne del cinema americano, desiderava comprensibilmente condurre a termine la sua trilogia sull’eroismo. Iniziata nel 2014 con American Sniper; il mitico cecchino che protesse in Irak l’avanzata dei marines uccidendo più di 200 persone; e proseguita due anni dopo con Sully, Tom Hanks che portava in salvo, planando sull’Hudson, i 155 passeggeri dell’Airbus dell’US Airways.
A differenza da quelle vicissitudini, l’azione in Attacco al treno dura un quarto d’ora: troppo poco, per giustificare un lungometraggio. Eastwood ha tentato allora di ovviare, assumendo i veri protagonisti come interpreti, risalendo alle loro motivazioni, a una adolescenza da allievi mediocri, di turbolenti appassionati di (ammirevoli?) giochi guerrieri. La sceneggiatura li ritroverà alla vigilia di un viaggio in Europa che finirà per condurli dove sappiamo. Ma attraverso un itinerario d’incomprensibile sciattezza: a colpi di selfie per Instagram, Roma e il Colosseo, la terrazza del Gritti sul Canal Grande, le bionde di Amsterdam in discoteca.
Clint rimane l’erede di tutto un cinema, Attacco al treno un film imbarazzante