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ROSETTA
(ROSETTA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 luglio 1999
 
di Jean-Pierre e Luc Dardenne, con Emilie Dequenne, Fabrizio Rongione, Anne Yernaux (Belgio, 1999)
 

Ma allora è vero - contrariamente a quanto si sottintende talvolta nei salotti - che i disoccupati non amano la disoccupazione? ROSETTA è la risposta poetica a questa domanda. Una delle tante sollecitate da un film diventato avvenimento, piccolo, privo di effetti speciali o stelle internazionali. Che, dopo aver riportato in un'edizione particolarmente fortunata di Cannes non soltanto la Palma d'Oro, ma pure quella della migliore Interpretazione Femminile sta spopolando sugli schermi, nei mezzi d'informazione, nei discorsi di mezza Europa.

ROSETTA non è un capolavoro. Non come immaginiamo i capolavori, quelli di Eisenstein, di John Ford, di Fellini o Kurosawa. Non con quelle caratteristiche cattedratiche, di somma stilistica, perfezione accademica o di sublimazione metafisica che assegniamo a quel genere un po' sovrumano di prodezza artistica. ROSETTA non è la Cappella Sistina. È una normale idea estetica su un modesto personaggio marginale; che si sta inserendo, con un'efficacia ed un'emozione impensabile (ed un riconoscimento popolare; anche se da noi si proietta in una saletta, una sola volta al giorno...) nell'immaginario collettivo contemporaneo. Affondando la lama del suo pensiero e della sua poetica nella nostra realtà sociale e politica (in Belgio, patria dei due fratelli Dardenne, la regolamentazione più recente sul lavoro l'hanno intitolata legge Rosetta...) come poche volte accade ad un prodotto cinematografico.

ROSETTA nasce per non lasciare indifferenti. Non tanto per la sua forma, che qualcuno ha già definito di aggressivo ma non inedito realismo: una specie di Ken Loach più rabbioso e meno ironico, cinepresa in spalla incollata alla febbrile, ostinata determinazione della sua indimenticabile protagonista (la diciottenne esordiente Emilie Duquenne). Ma, al contrario perché sfugge ai limiti del realismo, cosi come a quelli del miserabilismo. Per l'attenzione di una sceneggiatura e una regia, ammirevolmente costruite ed epurate, al gesto ed all'oggetto quotidiano; il modo di indagare nello sguardo sfuggente di Rosetta come nel significato di un grembiule annodato dietro la schiena. Di frugare nel reale per ricavarne dei segni non tanto veristici: quanto cinetici, simbolici ed eterni: Camminare, correre, scavare, sprofondare, ascoltare nutrirsi, faticare. Oltre l'oziosa disquisizione stilistica: Rosetta è un personaggio teoricamente insignificante, colei che l'interpreta è un attrice teoricamente acerba, l'ambiente descritto o le relazioni fra i personaggi sono teoricamente banali. Le loro ragioni, i loro sentimenti (mai pietisticamente buoni, mai melodrammaticamente cattivi) apparentemente qualsiasi. ROSETTA è un grande film, ed appartiene a tutti perché ha la forza delle cose qualsiasi.

Rosetta abita in una roulotte di periferia. Vive non tanto di un mestiere (inutile dirlo, insignificante: addetta all'impastatrice di un pasticciere, venditrice di crêpes): quanto del fatto di avere un mestiere. Un lavoro normale, che non sia quello sottobanco che gli propone l'unico che sembra volerle dare un mano; un suo, chiamiamolo cosi, innamorato.Senza scomodare Zola e l'ottocento, anche negli anni dei supermercati del benessere e del Welfare conservare anche la più miserabile, la più sfruttata delle condizioni di lavoratore può diventare ancora un'impresa disperata. Più disperata della sopravvivenza stessa: e per Rosetta il lavoro non è una ragione di sopravvivenza, ma di ragione di essere. Il cordone ombelicale che la tiene stretta alla sua faticosa, non proprio dilettevole, ma pur sempre vita. E allora Rosetta si abbarbica a quell'idea di lavoro, a quella esigenza di normalità e di continuità con la disperazione di un animale ferito. Con le stesse unghie che le servono per affondare nei sacchi di farina quando vogliono trascinarla via, licenziarla a forza; le stesse che affonda nella terra grigia, eternamente intrisa di Vallonia quando si tratta di uscire dallo stagno nel quale è cascata (o si è buttata?). Salvarsi, divincolarsi dal buco. Lo stagno, al quale Rosetta ritorna incessantemente; nel quale sarà tentata di affondare l'amico. E che ai Dardenne serve per tradurre fisicamente quella spirale di terribile attrazione antica, che la civiltà del consumo finge d'ignorare. Rosetta, mentre tenta di addormentarsi, l'esorcizza teneramente: "Ti chiami Rosetta; mi chiamo Rosetta. Hai trovato un lavoro; ho trovato un lavoro. Hai una vita normale; ho una vita normale. Non cadrai nel buco. Non cadrò nel buco...".

Lavora o muori. ROSETTA capovolge il significato di una imposizione che ha generato le rivendicazioni di tante generazioni; il segno di una maledizione, imposta da una delle tante divinità ai colpevoli di non si sa quale peccato. Al giro del millennio, il lavoro è diventato non soltanto uno dei pochi beni di consumo di difficile acquisizione e conservazione. E per tante Rosette, mortificate da un mondo che quello stesso lavoro non ha saputo o potuto rendere accettabile, rimane la ragione di vita ancora più auspicabile. Allora, per soddisfare questo suo bisogno primordiale, la protagonista sarà pronta a tutto. Quasi ad uccidere, di certo a tradire qualcuno disposto a concederle un gesto di amore. Perché, senza un mestiere, nemmeno quel toccasana sul quale il cinema, e non solo il cinema ha costruito tante fortune sembra ormai impotente.


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