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LOLITA
(LOLITA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 ottobre 1983
 
di Stanley Kubrick, con James Mason, Sue Lyon, Shelley Winters, Peter Sellers, Marianne Stone (Gran Bretagna, 1962)
 

Girato un anno prima del Dottor Stranamore, Lolita è il film che, grazie al suo enorme successo di cassetta, conduce Stanley Kubrick a quella che è una delle sue prerogative più invidiate, l'indipendenza economica. Ma Lolita è stato anche uno dei film di Kubrick meno apprezzati dalla critica; quella stessa critica che ha riservato in seguito favori praticamente incondizionati alla sua opera.

L'equivoco è quello di sempre: un riferimento eccessivo all'opera letteraria che è all'origine del film. In questo caso il celebre romanzo di Nabokov: la notissima vicenda del professore tedesco giunto negli Stati Uniti per insegnare la poesia francese che, sedotto dalle grazie di una ninfetta tredicenne, finge di accomodarsi della corte invadente della madre della ragazzina. Lo scandalo provocato allora dal romanzo era dovuto non soltanto alla faccenda della quasi bambina, ma anche alla critica sottile quanto feroce, che Nabokov faceva della società americana. Kubrick, per riuscire a produrre il film, scelse la strada più logica. Quella di attenuare il fattore più evidente di provocazione del romanzo, l'età della protagonista. Ed infatti Sue Lyon appare nel film più come una giovane donna che come una bambina precoce: una delusione (o una frustrazione) che molti non perdonarono al film.

Rivedere il film ad anni di distanza, e con un problema di ninfette sistemato da tempo grazie alla supposta emancipazione del cinema in materia, Lolita appare esattamene quello che doveva significare allora. Un film che segna la svolta fondamentale di uno degli autori più importanti del dopoguerra. È vero quello che disse la critica di allora: che Lolita è ormai una signorina, e non si comprende il malessere ambiguo, per non dire il terrore nei confronti della polizia che accompagna il professore nella sua fuga per gli Stati Uniti. Oppure che Peter Sellers, anticipando i tempi della sua famosa interpretazione in Il dottor Stranamore invade un poco l'intimismo del racconto. O che James Mason finisce coll'apparire caricaturale nel suo ruolo di vittima della passione. Ma tutto ciò fa parte di un gioco di significati diversi da quello di una semplice rivisitazione in immagini dello spirito del romanzo: un gioco che possiamo apprezzare completamente oggi, conoscendo quello che Kubrick ha fatto in seguito.

Il personaggio emergente di Lolita (anche se lo vediamo crollare sotto i colpi di pistola del professore, dietro al quadro di Gainsbough che anticipa Barry Lyndon, nelle primissime sequenze del film) è quello di Peter Sellers. E questo psichiatra-persecutore del povero professore innamorato, il solo personaggio di Nabokov ad uscire amplificato nella propria importanza dalla trasposizione cinematografica. Non a caso rappresenta il potere, quella violenza del potere che da una rappresentazione umoristica sfocia nella depravazione e nella follia, una costante dell'opera del regista. L'America, ma meglio sarebbe dire la società, è il bersaglio che si nasconde dietro al personaggio di Sellers: con la sua intransigenza morale, il terrore oppressivo della diversità, il voyeurismo e la delazione.

La società che spia attraverso le persiane socchiuse e che conduce il professore dalla passione alla follia è la tela di fondo di una dinamica che sarà quella di tutta l'opera del regista di 2001: Odissea nello spazio e di Arancia meccanica: l'impossibilità per l'individuo di vincere il proprio condizionamento sociale.

Come sempre nel grande cinema americano, l'attore è al centro dell'attenzione del regista: e tutta la straordinaria padronanza figurativa di Kubrick, già evidentissima, è qui al servizio di Shelley Winters, di James Mason, di Sue Lyon. I quali, infatti, sono grandissimi. Ma la Winters non è soltanto una pateticamente vogliosa e invadente vedova di mezz'età, Mason un intellettuale paranoico e Sue Lyon un'adolescente ingenua e perversa. Essi sono le vittime di un medesimo destino: l'impossibilità di evadere dalla propria situazione, materiale ma soprattutto morale.

Il personaggio della Winters raggiunge una dimensione tragica perché supera quello della caricatura iniziale: inchiodata nella provincia ovattata e squallida, l'incontro con il professore europeo rappresenta per lei la possibilità irripetibile di uscire dal ghetto di una meschinità esistenziale che Kubrick sottolinea non tanto con ferocia, quanto con tenerezza. Ma il professore ama Lolita, la ragazzina apparentemente sovrana nel proprio esercizio di gioventù e di seduzione. Ma anche Lolita, come le vittime della sua grazia, è inchiodata alla propria condizione: i suoi sogni di gloria, il ballo del sabato sera o addirittura Hollywood sono quelli delle ragazzine americane. Esattamente come la propria fine: davanti ad una cesta di panni da lavare, incinta e senza un soldo, sposata al bravo ragazzo fallito. In quanto al professore, egli è ovviamente la vittima predestinata, ma non solo perché tiranneggiato dall'oggetto della propria passione. Ancor più che per gli altri il proprio è uno scacco morale e spirituale: il suo tentativo di sublimare, attraverso la cultura e l'intelligenza, la passione per Lo e la comprensione per il mondo che lo circonda finisce nella tragedia.

Vinto, come i protagonisti di Arancia meccanica o di Barry Lyndon, da una legge più forte di lui: ricacciato nel limbo della follia, distrutto dalla logica di un sistema che né volontà né l'amore riescono a scalfire.


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