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FESTIVAL DI CANNES 2000 (1): LOACH, MAKHMALBAF, COHEN, SOLDINI
  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 giugno 2000
 
Loach, Makhmalbaf, Cohen, Soldini (2000)
 

MEGLIO I POVERELLI - PRIME GIORNATE Ken Loach non vincerà nemmeno questa volta la Palma d'Oro. Ma il suo BREAD AND ROSES avrà occupato, tanto per cambiare, le menti non proprio disponibili dei cosiddetti festivalieri nella prima tornata di Cannes. Perché Loach, non lo scopriamo proprio ora è un personaggio unico nel mondo del cinema. Si potrà dire ciò che si vuole; che non ha mai vinto una palma, e nemmeno una posizione di privilegio in quelle discutibili classifiche che decretano i 100 migliori film del secolo; che con il realismo non si potranno mai superare determinate dimensioni poetiche; che le sue storie ed i suoi personaggi non cambiano mai. Tutto vero: come il fatto che ormai di un film si dica che è fatto "alla Loach". E che quando si penserà alle immagini in movimento dedicate alla condizione sociale del nostro tempo, alle aspettative politiche che la riguardavano, sarà difficile non cominciare dalle sue parti .Che da britanniche, per la prima volta si sono fatte statunitensi. Nella Los Angeles degli immigrati clandestini messicani, dei lavoratori delle imprese di pulizie, impiegati con paghe orarie che in quindici anni sono scese (sic) da otto a cinque dollari. Fra quegli allegroni (i latinos, si sa, cantano e ballano) privi delle più elementari conquiste del welfare, Loach si comporta come sempre: li lascia vivere, filmandoli come fosse sempre stato uno di loro. Poi, però, gli basta un dettaglio insignificante per far salire il tono: come un paio di foto da mostrare a quei bambini che parlano ormai inglese; e che gli ultimi scaricati dalla mafia criminale dei trasportatori raccontano dei parenti, perché non siano dimenticati al paese. La vicenda è cosi semplice (le rivendicazioni sindacali come nel cinema didattico degli anni Trenta), le situazioni cosi banali da parere a molti insignificanti: ma è anche insegnando alla protagonista come si pulisce la soglia di "un ascensore con la punta di un cacciavite che ci si insinua nella memoria. E nel cinema di Loach è proprio quella banalità quotidiana a farsi schema; a trasformarsi in energia, in logica ed emozione. Nella sequenza chiave, che mette a confronto la giovane protagonista con la sorella che non crede nei sindacati ed ha tradito, questa confessa. Gridandole però in faccia che i soldi inviati per mantenere tutti al paesello non provenivano proprio dal cielo; ma dal marciapiede. "Vogliamo pane, e anche rose. Quelle che rendono bella la vita", recita l'ultimo capitolo del cinema di Ken Loach. Che, unico come sempre, è capace di andare oltre l'esposto predicatorio: a mostrare che non sono tanto gli individui a fare il brutto ed il bello. A condizionare le regole della morale, alla quale tanto volentieri ci riferiamo. Ma il sistema: del quale tutti, rappresentanti di quello che crediamo essere il Bene ed il Male, siamo inesorabilmente prigionieri. E' un altro modo, altrettanto efficace di semplificare quello seguito dalla iraniana Samira Makhmalbaf in LA LAVAGNA. Che è quella che si trasportano sulla schiena decine d'insegnanti disoccupati alla ricerca di allievi, per i sentieri impervi delle montagne del Kurdistan, fra l'Iran e l'Irak di uno dei tanti conflitti armati. Inizio di bellissimo impatto espressivo: e di una semplicità stilistica che non sarà mai compiaciuta (come si poteva temere in alcuni dei più recenti successi di un cinema di successo forse troppo crescente come quello iraniano&). Perché la figlia ventenne di papà Mohsen (coautore della sceneggiatura; e di cos'altro?) ha scolpito un film antico e sospeso nel tempo, che sembra - fra quelle popolazioni in eterna fuga fra le cime ed i confini, che ricordano quelle a noi più vicine de IL CAMMINO DELLA SPERANZA di Germi - risalire alle origini dell'umanità, dei meccanismi della sopravvivenza e del vivere civile. Una manciata di noci; come ricompensa per essere guidati fino ad un confine, che non si sa bene da quale patria separi. Anche due, soltanto: quelle che servono ai vecchi per insegnare al bambino come giocare. Le lavagne per un pezzo di pane, oltre che per trasmettere il sapere; ma pure per tentare di far scudo ai i ragazzini, ammazzati a fucilate perché vivono - si fa per dire - di contrabbando. E' una guerra latente, invisibile e quasi astratta, quella che minaccia quell'andirivieni dei poveracci. Perché non è tanto una guerra: ma la condizione eterna e primordiale di un'umanità che, uscita appena dal medioevo è già sul punto di ritornarvici. Non ci sono più certezze, tanto meno in questo baraccone che fabbrica immagini: due degli idoli del vostro cronista, i mitici fratelli Coen, hanno arrischiato la solita fine dei loro pari. Intendiamoci, non è che in O BROTHER, WHERE ART YOU (titolo curioso, preso in prestito da quell'altro celebre, tragicomico viaggio nel Mississippi della Depressione che fu I DIMENTICATI di Preston Sturges) manchi qualche brillante intuizione espressiva, splendide esecuzioni che delizieranno i fanatici della musica country, personaggi strambi ed (alcune) occasioni per riderci sopra. Ma dietro a queste riuscite parziali, che basterebbero probabilmente ad assolvere molti comuni mortali della settima arte, per dei geniacci maestri della disinvoltura come i due si sente troppo lo sforzo di essere eccentrici, spassosi e poeti al tempo stesso, ed ad ogni costo. Meno svitato di ARIZONA JUNIOR, curioso di BARTON FINK, assurdo ed agghiacciante di FARGO, questo FRATELLO, DOVE SEI ? brancola a lungo alla ricerca del tono giusto: proprio come i suoi due strabuzzati, celebri protagonisti, George Clooney e John Turturro. La "casalinga" dimenticata nell'Autogrill... Silvio Soldini, con questa storia che, come il suo titolo vuol dirci che non viviamo di solo pane, sembra scivolare su dei registri per lui inediti. Ma il suo cinema rimane quello di sempre. Costruito non tanto su delle storie: ma dei mosaici, fatti dalle relazioni fra personaggi. Fili misteriosi, delicati, spesso poetici che ne segnano i destini. Che rappresentano la vera ragione d'essere del cinema di Soldini: isolato nel suo pudore, in quella sua forza espressiva che gli permette di trasformare il quotidiano dell'Italia che conosciamo in un fascio di significativi rinvii spirituali. Da parte di questo intimista delicato si poteva temere il passaggio ad un film satirico per non dire comico: poche sequenze di PANE E TULIPANI bastano a dimostrarci che si tratta, come sempre di un film straniante. Di piccoli segni che entrano progressivamente nella vita della protagonista (sensibilissima Licia Maglietta), come quel cartello "cercasi nuovi genitori" che i ragazzini che la sorpassano in autostrada hanno appiccicato sui vetri. Poi, gli incontri, la scelta intelligente, diversa, della Venezia della fuga, le scenografie degli interni. O il bel finale, colpo d'ala quasi inatteso, con il sempre bravo Bruno Ganz in completo celestino nel suo strambo, toccante personaggio di cameriere islandese che cita l'Orlando Furioso. E lei, truccata come un'eroina di Kaurismaki o di Almodovar. PANE E TULIPANI è una favola: che ci invita a prenderci una vacanza di libertà, ma non necessariamente a destinazione Caraibi. E che il regista riconduce a quella malinconica delicatezza che gli è congeniale. Cosi come a quelle piccole tentazioni che lo inducono a deviare dall'itinerario principale: tipare un marito troppo esagitato, un'amica dalla bizzarria inutilmente sottolineata, un investigatore poco interessante ed assai meno eccentrico del previsto, un fiorista anarchico più che altro nelle intenzioni. Ma, in attesa del capolavoro, del cinema di Soldini limitiamoci allora ad apprezzare le qualità: cosi preziose nella cornice del cinema italiano da rendere la visione di PANE E TULIPANI indispensabile e giubilatoria.

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