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IL PARADISO PROBABILMENTE
(IT MUST BE HEAVEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 dicembre 2019
 
di Elia Suleiman, con Elia Suleiman, Gael Garcia Bernal, Holden Wong (Palestina, 2019)
 

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Quante cose possono essere dette nel silenzio. Il regista palestinese Elia Suleiman taceva cinematograficamente dal 2009 di Il tempo che ci rimane. Ora, l’uscita di Il paradiso probabilmente sembra ricordarci come sempre la tragica, inarrestabile tragedia della sua terra; ma pure con quanta poetica efficacia il cineasta l’abbia sempre evocata seguendo la traccia magistrale e ineguagliata di maestri come Buster Keaton, Tati, Chaplin. 

Questo suo ultimo, preziossimo film Cannes l’ha presentato nella sua ultima, al solito frettolosa giornata. Rivederlo a pochi mesi di distanza ci colpisce come una Palma d’oro mancata: come ad Elia Suleiman non occorra granché per invitare le nuove generazioni a ripercorrere con un piacere che essi ignorano quanto di sublime appartiene ad un universo che il cinema ha inventato prima delle frettolose incursioni nei telefonini. 

Un seguito di situazioni come sospese nel tempo (e di conseguenza incancellabili nella memoria), silenziose, fatte di piani fissi, d’inquadrature in buona parte già frequentate di Nazareth, Parigi, New York. Tutto, in apparenza, al seguito di un osservatore muto, un cineasta alla ricerca di un produttore che gli finanzi il suo film. Una visione tragicomica, più assurda che sconsolata, talvolta addiritura esilarante di un cittadino del mondo senza patria: che nel disilluso sconcerto in cui ormai si rassegna, tenta di ritrovarsi. 

Come gia nel suo secondo lungometraggio Intervento divino, che nel 2002 faceva conoscere al mondo questo cineasta dalla raffinata originalità oltre che dai significati politici che ora sappiamo, il suo modo di affidarsi alla forza delle immagini gli e’ del tutto particolare. Questa rinuncia alle spiegazioni verbali inutili ( e mortificanti per l'intelligenza, comunque sottovalutata, dello spettatore), di affidarsi all'intuizione che nasce dal silenzio e dalla contemplazione gli permette di riappropriarsi una emozione che ricorda quella del cinema muto. In un meraviglioso viaggio, che conduce dalla realtà alla fantasia. O viceversa: dalla dimensione poetica alla riflessione realistica. Quando i sogni degli artisti, come quelli dei popoli oppressi, sono destinati a varcare i limiti che segnano i territori.

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* * * (*)  IT MUST BE HEAVEN,  by Elia Suleiman, with Elia Suleiman, Gael Garcia Bernal, Holden Wong (Palestine, 2019)

    Review date: December 27, 2019

Available on DVD/Blu-ray or VOD/streaming etc.


 How many things can be said in silence. Palestinian director Elia Suleiman has been silent cinematically since 2009 in The Time We Have Left. Now, the release of Paradise probably seems to remind us, as always, of the tragic, unstoppable tragedy of his land; but also how poetically effective the filmmaker has always evoked it, following the masterful and unparalleled track of masters such as Buster Keaton, Tati, Chaplin.

This last, precious film of his, Cannes presented it in his last, usual hasty day. Seeing it again a few months later strikes us like a missed Palm of Gold: just as it doesn't take much for Elia Suleiman to invite the new generations to revisit it with a pleasure that they ignore how sublime it belongs to a universe that cinema invented before the hasty forays into cell phones.

A sequel of situations as suspended in time (and consequently indelible in memory), silent, made up of fixed planes, of shots that have already been largely taken in Nazareth, Paris, New York. All, apparently, in the company of a silent observer, a filmmaker in search of a producer to finance his film. A tragicomic vision, more absurd than disconsolate, sometimes exhilarating as a citizen of the world without a homeland: in the disillusioned bewilderment in which he now resigns himself, he tries to find himself.

As in his second feature film Intervento divino (Divine Intervention), which in 2002 introduced the world to this filmmaker of refined originality as well as political meanings that we now know, his way of relying on the power of images is very special to him. This renouncement of useless verbal explanations (and mortifying for the intelligence, however underestimated, of the spectator), of relying on the intuition that comes from silence and contemplation allows him to regain an emotion reminiscent of silent cinema. In a wonderful journey, which leads from reality to fantasy. Or vice versa: from the poetic dimension to realistic reflection. When the dreams of artists, like those of oppressed peoples, are destined to cross the limits that mark the territories.

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