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VITTORIA E ABDUL
(VICTORIA AND ABDUL)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 ottobre 2017
 
di Stephen Frears, con Judi Dench, Ali Fazal, Eddie Izzard (Gran Bretagna, 2017)
 

Il ritratto di una regina, l’affresco di una corte non costituiscono per Stephen Frears una novità; tutti ricorderanno l’immenso successo, di pubblico e di critica di The Queen. Il regista britannico è un autore che ha alternato opere memorabili (My Beautiful Laundrette, Le relazioni pericolose, Mary Reilly, il piccolo, miracoloso The Snapper, Cheri) ad altre sempre d’impeccabile qualità e professionalità. Ventiduesimo lungometraggio di una carriera, Vittoria e Abdul è da collocare fra queste: uno di quei ritratti scavati che Frears predilige da sempre, con l’individuo prigioniero del formalismo, condizionato dalla sua impossibilità di voler bene.

Non è quindi a caso che anche questo quadro disinvolto, ambientato alla fine dell’Ottocento, ruoti attorno ad un’altra sovrana: non più Elisabetta II, ma la mitica regina Vittoria, assolutamente esaltata da un’interpretazione memorabile di Judi Dench (al solito, parzialmente offuscata nella versione doppiata in italiano). Anziana, apparentemente assente, circondata dal conformismo scialbo della corte, sollevata di peso dai servitori al risveglio, consumatrice imbronciata e sbrigativa a capotavola d’imponenti banchetti.

Tutto ciò fino all’arrivo di un giovane musulmano Abdul Karim dall’India, della quale Vittoria è imperatrice da una decina d’anni. Un modesto portatore d’omaggio: ma destinato a diventare valletto personale dapprima (la vicenda è autentica, l’obbrobrio sarà generale, con il figlio, futuro Edoardo VII, che brucerà tutte le testimonianze), quindi segretario, insegnante di lingue, ed infine guida spirituale. Una sorta di elisir di lunga vita, per la gran dama, nei restanti quindici anni del suo regno.

Alla straordinaria presenza di una Judi Dench imperiosa, fragile, ma pure simulatrice, alla figura non priva di ambiguità del giovane Abdul, che molto sorvolerà sui suoi precedenti, Stephen Frears contrappone quella ai confini della caricatura dei cortigiani. Dietro l’estrema brillantezza della regia non c’è più la rabbia: ma una satira del colonialismo intrisa, di sarcasmo, velata da un (legittimo) sentimentalismo che va imponendosi nella filmografia più recente del settantaseienne cineasta.


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